varie
1986; 1992; 1996; 2003
POLVERE E LUNA
1986. Giorgio Caproni, da “semplice lettore”, saluta e riconosce, nella prefazione dell’esordio di Patrizia Garofalo, il tono “sommesso, ma pungentissimo”, senza smagliature, dei suoi versi; elogia la virtù della misura, parla di versi d’una “necessità sorprendente”. Sotto l’alto patrocinio d’una delle più ispirate voci della poesia italiana del Novecento, s’inaugura l’opera d’una poetessa che scrive versi contraddistinti da una surclassante femminilità; “Ipotesi di donna” è un canzoniere erotico, notturno e sensuale.
“Scopro gli strani colori, numerosi, variegati che la notte non solo non incenerisce ma bagna, brilla disegna”, scrive Garofalo nel primo, campaniano prosimetro, “Il magnetismo strano di una notte d’estate” – entriamo dunque nel “gioco assurdo della vita” (“Sotto i ponti dove l’acqua diventa melma”) dell’autrice dalle “mani coperte di sangue” (“E tu ancora ti meravigli”): si va a “frantumare le parole” (“Copri pure con un manifesto di protesta”), nella terra di “pozzanghere del sole” (“Anche il sole”): per menzogna e artificio e memoria di vita vissuta e d’amori – una menzogna salvifica e umanissima; pensiamo ai versi de “L’incatenarsi di un tempo”: “Nell’inganno di una verità sfuggita / i nostri visi / cercavano superstiti / una bugia che li riavvicinasse” – menzogna allora destinata a correggere le aporie e le imperfezioni dell’esistenza, a colmare quel divario altrimenti irrinunciabile.
È una voce gentile e disperata, che “non sa quasi niente” e si riconosce viva solo nella carne: sa cosa significa “fare l’amore contro il suicidio” e rovesciarsi sulla terra (“Non so quasi niente, amico”) – il corpo rimane a terra, l’immagine si fa evanescente mentre “il tempo raccoglie / un’ipotesi di donna” (“Mi grido solitudine addosso”). L’amore è “la paura di un contatto / che segua il percorso / di due segni paralleli” (“Superfici rigate”), quasi ad anticipare la sorgente della poesia di Tommaso Ottonieri (cfr. “Contatto”, Cronopio, 2002).
Solcano i versi, tuttavia, nuove epifanie d’una fisicità che corregge il male: “Al nostro dolore è scampo solo / la nostra presenza”, si legge in “Rannicchiata su un divano”; e preziosa, a questo punto, in un libro che incarna l’assenza (dello spirito, e del senso) è l’apparizione della mani dell’amato; che vanno a uncinare alla realtà – a stabilire il “contatto” – i versi dell’artista, qui pittrice prima ancora che poetessa: perché ogni verso è un tratto e un colore, e si sospende sulla carta, chiaroscurando: “[…] / le tue mani / lunghe, / silenziose, / smagrite, / sospirose / accennano un discorso / tra il fumo di una sigaretta” (“Stretto vocabolario di assenze”).
È un esordio, dunque, seducente e profondo; amarissimo, e sensuale; ipotesi d’una donna che stabilisce nella carne e nella terra la realtà, e che tuttavia stenta – sembra – a percepire l’esistenza come sola carne, e terra.
1992. “Le bambole non si pettinano” è la seconda raccolta della poetessa originaria di Camerino; s’avverte, rispetto al libro precedente, un ripiegamento interiore che ha prodotto un’efficace identificazione nel gabbiano – sorta di spirito guida e di nitida raffigurazione della psiche dell’autrice – e una versificazione che tende all’intimismo, alla denuncia dell’incomunicabilità, al solipsismo; sino ad apparire, in una circostanza, aperta confessione (“Vorrei confessarmi”). Non stupisce allora il richiamo, in ouverture, all’ultima battuta vangoghiana: “Per agire nel mondo occorre morire a se stessi”: il secondo libro della Garofalo sembra dimenticare la sensualità per giocare sull’evocazione, sull’astrazione.
S’invita, nella prima lirica, a “dimenticare le nostre vite”, in un robivecchi “dove qualcuno / ha inventato una bicicletta / per volare” (“È il tuo essere uccello”): altrove, l’invito non muta – sognare una storia come quella dei gabbiani, in cui “il tempo sia per tutti, domani” (“Rimanere è un verbo di tempo”). Si rinuncia al presente, si pretende d’essere altrove; senza nido, e senza più esistere – per essere altrove, come un gabbiano.
Nell’ambito della produzione della Garofalo, questa raccolta merita d’essere ricordata per una seconda ragione: oltre alla prima, eclatante epifania del “gabbiano”, registriamo la presenza di un testo che costituisce una sintesi dell’opera e dello spirito dell’autrice, “Sono io; lo urlai tanto tempo fa” – notevole per via, oltretutto, d’un richiamo diretto all’esordio. Leggiamo: “Sono io; lo urlai tanto tempo fa / trattenendo tra le mani / una tunica bianca / Sono io: formato tascabile, portami via. / Sono io: ipotesi di donna / ammalata di paura / e di un coraggio che ha paura di non / averne / Sono io: Patrizia Garofalo”.
È in questi versi forse che possiamo percepire e distinguere il germoglio della resistenza d’un’anima avvilita e ferita. Passano così quattro anni. 1996. “Terra di nomadi” costituisce un’equilibrata sintesi tra la sensualità e l’esasperato femminino dell’esordio e l’introspezione e l’intimismo de “Le bambole non si pettinano”. L’autrice, “nomade persino a se stessa” (“Mio caro”), “dissotterrata dal silenzio aspetta un passaggio” (“Il desiderio della tua felicità”): canta d’un grande amore – impressiona il crescendo nelle prime dieci composizioni, “lettere in versi” incisive e infiammate di passione; una passione che sa divenire adorazione, e scolpisce frammenti di vissuto sulla carta, animandoli di una vitalità adorabile – ed accenna ed evoca lo strazio d’una morte. Il segno d’un addio, d’una “assenza violenta”, di qualcosa di unico andato perduto accompagna nell’ombra la poesia. D’un tratto, la versificazione pare scarnificata e disossata; non più canto, ma sospiro e singhiozzo – e rimpianto e vuoto. Allora davvero si comprende un’espressione come “l’immortalità invecchia, rende opachi e stravolge i sentimenti” (“Caro amore”) – c’è un abisso che va giustificato, perché non si nutra della memoria e sradichi quel che è stato vissuto dall’anima della poetessa.
S’avverte una sospensione, un intervallo – segno dell’opposizione alle tenebre, della negazione e della resistenza alla disperazione. Incontriamo, così, irregolarmente nuove tematiche, e nuove ambientazioni prima estranee. Nominate Roma e Ferrara – antica e nuova patria; Ferrara “incrocio solitario di strade che senza luci vivono solitudini infinite” e “ascensore verso il nulla” (“Caro amore”), ma anche fonte d’un sorriso (“Rido / dell’orgasmo solare / di un inverno / ferrarese”, “Rido”). È un libro di contrasti, come si può dedurre anche dall’antitetica lettura della città estense; strapiombi di depressione e improvvise elevazioni, sensualità e seduzione e quindi incertezza e dubbio – fin quando non s’intravede un proposito che si può leggere come esito d’un percorso esistenziale, nella poesia “So che non vivrò di questo”: “So che non vivrò di questo / salirò in una barca / di pescatori contenti / dimenticherò il mio corpo / in una sera. /Mi sacrificherete / alla luna”.
Si sogna un “naufragio della memoria” che non accade; infine l’autrice si riconosce nella “immagine frantumata del suo volto di donna mai ritrovato”. L’origine della poesia della Garofalo – “L’ipotesi di donna” non s’è risolta, è rimasta inalterata e incorrotta – soltanto, il conflitto s’è disteso nei versi e ha trovato espressione, per contemplazione ed evasione.
2003. “Mare d’anime”. Spiega Ruffilli, nella prefazione: “Una poesia che affonda, non solo per istintiva natura ma per scelta, le sue radici e le sue ragioni nei processi mentali del soggetto cogitante, ponendosi come rassegna delle immagini privilegiate del moto e gioco intellettuale, è quella che caratterizza il nuovo libro di Patrizia Garofalo. Una poesia dell’intelligenza che non è per nulla spoglia del riscontro emozionale e che anzi, per contrasto e in forza inversamente proporzionale, fa sprigionare dalle sue limate superfici un’ansia assoluta di partecipazione e di complicità rispetto al mondo e alla sorte degli uomini” (p. 7).
“Mare d’anime” è un libro di polvere e fantasmi; un libro della memoria e della maturità. Dal naufragio del dolore la poetessa s’è salvata, faro invincibile gli occhi dei figli; s’avverte tuttavia, nei versi, la presenza d’un popolo d’ombre e spettri – memorie o reminiscenze – che vanno, a volte, a impedire alla naturale e originaria lunare incandescenza dell’autrice di scintillare. Emblematica questa rappresentazione di Ferrara: “Ferrara canta lunghe voci / esprime grandi sorrisi di cortesia, / si dipana / arrotolandosi / vicino al Castello. / Ma non esiste” – quest’ultimo verso è d’una potenza e d’un nitore schiaccianti; disorienta, spiazza, sgretola. Impressionante.
Concludiamo questa panoramica sull’opera della Garofalo con le parole della poetessa; perché se i limiti di chi scrive impediscono una più organica e raffinata lettura dello spirito dei suoi testi, possono almeno i versi correggere e illustrare e illuminare. “Amerò la tua città deserta”: “Amerò la tua città deserta / dove i colori / ogni giorno / segnano disegni inventati / Amerò le vie nebbiose / dove essere qualcuno / è un miracolo degli occhi. / Amerò anche te / che cammini ma non guardi. / Abbiamo una vita sospesa. / Verso l’alba / o / verso il mare?”
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Patrizia Garofalo (Camerino, 1949 - Ferrara, 2017), poetessa italiana. Ha insegnato Lettere a Ferrara, in un Istituto Superiore.
Opere esaminate: Patrizia Garofalo, “Ipotesi di donna”, Gabriele Corbo, Roma 1986. Prefazione di Giorgio Caproni. Patrizia Garofalo, “Le bambole non si pettinano”, Gabriele Corbo, Roma 1992. Prefazione di Franco Patruno. Patrizia Garofalo, “Terra di nomadi”, Libroitaliano, Ragusa, 1996. Patrizia Garofalo, “Mare d’anime”, Schifanoia Editore, Ferrara, 2003. Prefazione di Paolo Ruffilli. In copertina, riproduzione dell’acquerello di Oliviero Accossano.
Gianfranco Franchi, agosto 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.