Diario notturno

Diario notturno Book Cover Diario notturno
Ennio Flaiano
Adelphi
1996
9788845911965

Diario notturno”, originariamente apparso assieme ad altri scritti, “appunti, aneddoti, viaggi e raccontini immaginari” sul “Mondo” di Mario Pannunzio, venne raccolto in volume per la prima volta da Bompiani nel 1956. Ammantato, a cinquant’anni di distanza dalla pubblicazione, dall’aura del gran capolavoro italiota e dissanguato da un citazionismo pulviscolare, che tende a farne – nella percezione del neofita – un magistrale libro di aforismi, è in realtà un libro così poco coerente e uniforme che davvero non riesce in altra missione non sia quella dell’intrattenimento, tradendo così, parzialmente, le sue origini. Sovente s’immaginano brizzolate risate a denti stretti, o ridicole e pudiche manine sulla bocca di lettrici ser(i)ali e demodé, ad accompagnare le battute più pungenti e le boutade più spiritose: a un tratto, io ho desiderato entrare nella vita di Flaiano esattamente in quel periodo per prenderlo a sganassoni alla prima freddura intellettualina e molto a modo. È stato un impulso irrefrenabile, un’immagine non priva di piacere. Con quel sarcasmuzzo pungente quanto un ago di pino, con quell’aria saputa da viveur de noantri, d’una Roma intellettuale che ritroviamo, da decenni, pompata manco fosse stata la corte di Ottaviano Augusto, con quell’allegra vocazione al paradosso e al fiacco lazzo.

Ostile alla franchezza, Flaiano vela, mima, simula, accenna, sbrodola quando il nemico è più indifeso, altrimenti, gelido, sibila. Scrive come uno spiffero di vento freddo: a volte il brividino ti dà la ridarella, altre volte t’insinua il mal di schiena. Un mal di schiena sgradevole. È, questo “Diario notturno”, decisamente molto distante dalla prima prova letteraria, davvero notevole e ispirata, quel “Tempo di uccidere” che mi sembra degno di memoria plurigenerazionale e di studio accorto e metodico: qui Flaiano è diventato una colorata trombetta da salotto intellettuale, uno scrittore brillante tra mercoledì e giovedì sera, nell’ora dell’aperitivo e comunque prima di mezzanotte, quando s’avvicina il fine settimana e c’è voglia di sobria e composta ilarità, magari con un pizzico di autoironia. Un cronistello della sua quotidianità con arie da genio della satira. Arie che, probabilmente, all’epoca venivano incoraggiate. Oggi non avrebbero sorte diversa. Perché sono davvero molto innocue.

Ho l’impressione che, a livello di brillantezza, oggi quel tono possa, in più di un frangente, tranquillamente battersela con quello dell’altro scintillante giornalista di costume coevo, il magnificamente catodico Severgnini. Trionfa Flaiano, nel confronto, perché ha in ogni caso più classe, pure pubblicando certe cosette che potevano pudicamente restare nel cassetto, senza costringerle ad arrossire in eterno sulla carta. E trionfa, rispetto al congetturato epigono, perché nomina con esibita disinvoltura amici artisti e intellettuali oggi purtroppo in altro e più felice luogo, e il lettore annota: Moravia, Carlo Levi, Soldati, Maccari, Pannunzio, Malaparte, e quasi sembra di sedere a tavola assieme a loro, o di poterli incontrare svoltato l’angolo. Al di là di tutto, la generosa spesa dei nomi cari è una piacevole suggestione. Ma è suggestione giornalistica e amicale in primis. Altro è Letteratura, altro era il Flaiano romanziere.

Prima di entrare nel dettaglio dei contenuti, andando magari ad evidenziare quanto di buono e di atipico s’incontra in almeno due parti di questo ozioso zibaldone dal sapore retrogrado di Italia, periferia del mondo (civile), confido che finalmente ho ricordato perché associo con tanto fastidio Flaiano alla televisione: Maurizio Costanzo, non da ieri, è uno di quelli che si umetta le dita, inforca il binocolino e guardando in camera mastica “Flaiano scriveva…” riducendolo alla sorte del Wilde mainstream, quella del genio della battuta-cioccolatino. Scartata e masticata. Ciomp, ciomp. Bella eh? Profonda. Proprio elegante. Arguta! E così, la trovata della battuta rimasticata la prima volta ti va bene, alla quinta t’accorgi che è tiepida, alla settima che è inflazionata, alla decima ti stucca e t’appare quasi reazionaria. Oltre, tu ascoltatore vorresti replicare con un feroce nocchino sulle tempie del brillante conversatore plagiario e citazionista. Flaiano, se sapessi. Se sapessi non ti piacerebbe, credo.

Cosa salviamo di questo famigerato “Diario notturno”? Senza dubbio l’amara e indovinata satira iniziale, “Supplemento ai viaggi di Marco Polo” (1945). L’io narrante, estraneo alla seduzione del viaggio, consapevole del passare del tempo negli specchi degli alberghi che lo ospitano, forestiero, è cosciente che l’uomo contemporaneo non abbia più né Colonne d’Ercole, né Thule a tenerlo a bada: una volta viaggiava alla ricerca del limite, adesso non è più possibile. Quindi, racconta il suo giovanile viaggio nel Paese dei Poveri. Naturalmente parla di un popolo che conosciamo bene: un popolo misero, che a dispetto della sua sofferenza ha fede in Dio e nel futuro, ama la guerra senza essere bellicoso, e purtroppo durante le carestie si spara addosso; vive generoso un’allegra decadenza e si lascia dominare da due, tre o quattro imperatori almeno. “Non è più nemmeno il giardino del mondo, come una volta. Nell’antico mare quella penisola era un trampolino verso altre terre, altri continenti; oggi è un corridoio senza uscita: arrivati in fondo bisogna tornare indietro” (p. 28). Non manca una salace battuta sulla fiaccola della Libertà del Nuovo Mondo, alimentata sì, ma dal petrolio (p. 19) a controbilanciare lo scenario.

Nella Capitale del paese dei poveri, gli eredi hanno distrutto un grande patrimonio e una grande civiltà (p. 40): sono liberti, clienti e senatori decaduti, che si trascinano mostrando diffidenza, freddezza, indolenza e superficiale tolleranza (p. 42); qui si corrompe bene, come da nessun’altra parte in Europa. Sullo sfondo, migliaia di provinciali in tetro isolamento (p. 43), animati talvolta dal desiderio di lasciare la città, finendo per restarci (p. 45) a dispetto di assenze durate magari qualche anno. Il tempo, qui, s’è fermato molto tempo fa. Segnalo – a latere – che sempre in questo “Supplemento” si registra una franca spadata all’Uomo Qualunque. Campiono questo passo: “Dice che paga la polizia per essere difeso da quelli che non possono pagarla. Dice anche di non avere idee politiche perché gli sembra inutile averne in un’epoca in cui le armi permettono ad una idea armata di sopraffarne altre mille disarmate. Se gli osservate che nessun’arma può uccidere un’idea, vi risponderà che il più piccolo temperino può uccidere però un uomo: lui” (p. 27).

A questo punto, m’attendevo fuochi d’artificio; cattiveria e intelligenza, amarezza e letterarietà, allegorie insolite e così via. Mi sono invece ritrovato tra gli imperdonabili “Sei raccontini inutili”, in cui grande diletto dovremmo trarre dalla vicenda della mascella lussata dagli sbadigli d’un professore, per via d’una misteriosa insofferenza alle maiuscole (e alla retorica… varrà la pena aggiungere la data, 1943); o grande sgomento potremmo vivere nell’incontro tra il narratore e un giovane che conosce ma non riconosce (doppio?), senza riuscire a dialogarci a fondo, o nella lettura simbolica del dramma dell’incidente ferroviario ne “Il tunnel”. Sono sketch, bozzetti, esercizi di scrittura. Cosette, sul serio. Risparmio – se non nominandola – la peggiore: “Il terzo personaggio”. Ai volenterosi l’onere di riproporcela e di spiegarne le ragioni della pubblicazione.

Segue la terza parte del libro: “La saggezza di Pickwick” (1945), dove la smania di saccenza spadroneggia, con una miracolosa discussione sulla stupidità (limiti e ragioni di fascino) e sulla presunzione d’intelligenza dei popoli mediterranei (p. 87): tetro annuncio di quella infinita galleria di bozzetti e battutine che sono i taccuini eponimi, “Diario notturno”. Segnaliamo l’ormai nazionalpopolare “poche idee ma confuse”, attribuito a Maccari (Taccuino 1946) e non a un paesano qualunque, come si poteva credere; la prosetta “L’epitaffio”, personale omaggio a Hemingway (“La vita è un Hemingway inimitabile”, chiosa l’autore), la stravaganza “Il pappagallo” (sullo stalinismo) e tutta una serie di amenità, che alla lunga mi hanno molto immalinconito, sulle contorsioni della borghesia italiana, media o piccola, assieme a chiosette su fatti o fattarelli di cronaca quotidiana. Con precipizi come questo, degno della commedia all’italiana: “Signore, siamo una famiglia felice. Mia moglie scrive romanzi, il bambino dipinge, la bambina è poetessa. Io sono l’idealista tollerato, il mattoide, in una parola l’artista di casa: mi occupo di affari” (p. 235).

Glissando sui pallidi racconti conclusivi, merita naturalmente menzione “Un marziano a Roma” (1954), rapida cronaca dello sbarco d’un alieno antropomorfo nella Capitale; pioggia di grandi nomi del tempo (da Fellini a a Soldati, sino a Ercole Patti) tra i primi, increduli spettatori, ad arricchire la vicenda paradossale e grottesca d’un avvento inatteso e irrichiesto, salutato dapprima come miracolo e presto consumato e ridotto a romanesca consuetudine: può essere una metafora della caducità di tutto, non solo del nuovo ma del “non umano”; ma anche, aggiungo oggi, dell’idolatria e dell’apprezzamento nei confronti di certe opere, che il tempo impietoso consuma, riposizionandone i resti e trasformandoli in ritagli d’un periodico settimanale, o peggio riempitivi d’una bolsa trasmissione televisiva.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Ennio Flaiano (Pescara, 1910 – Roma, 1972), giornalista, sceneggiatore, critico teatrale e cinematografico, romanziere italiano.

Ennio Flaiano, “Diario notturno”, Rizzoli, Milano 1977

Oggi reperibile in Adelphi, Milano 2002. Prima edizione: “Diario notturno”, Bompiani 1956.

Gianfranco Franchi, settembre 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.