Mondadori
1998
9788804461913
“Ma arrivando in Irlanda, col suo piccolo corteo di familiari, e ben presto ridotto lui stesso, da un prolungato ritardo di sussidi economici, al ruolo di povero, Böll scoperse una terra che non solo era verde per il colore dei prati e dei boschi, ma anche perché il verde è il colore della speranza: la speranza in un mondo non ancora corrotto, ancora pio e bambino, ancora intimamente sano. Si è parlato, a proposito di questo libro, che uscì nel 1957 col titolo 'Irisches Tagebuch', di un’«utopia» di Böll, ma in senso quasi sempre positivo. Era un’utopia così poetica, così fresca, così seducente che molti recensori e critici la salutarono come un dono inaspettato che rallegrava il cuore” (“Un verde tutto nuovo, di Italo Alighiero Chiusano, pag. 7)
«Dimmelo apertamente» mi chiese Padraic dopo il quinto bicchiere di birra «non ti pare che tutti gli irlandesi siano mezzo pazzi?» «No» feci io «considero mezzo pazzi soltanto una metà degli irlandesi». «Avresti dovuto fare il diplomatico» disse Padraic e ordinò il sesto bicchiere di birra «Ma ora, dimmi proprio sinceramente se tu ci consideri un popolo felice». «Io credo» risposi «che voi siate più felici di quanto sappiate; e se sapeste quanto siete felici, trovereste già un motivo per essere infelici. Avete molti motivi di essere infelici, ma voi amate la poesia dell’infelicità. Alla tua salute»(Böll, “Diario d’Irlanda”, Capitolo VI, “Dentista politico ambulante”, p. 57).
Heinrich Böll scrive l’elegia dell’Irlanda dei tardi anni Cinquanta; nazione dai singolari primati (ordinazioni sacerdotali, frequenza del pubblico nelle sale cinematografiche, consumo annuo di tè a persona – cinque chili, quanto basta “a riempire una piccola piscina”), estranea alle drammatiche tendenze suicide caratteristiche delle altre civiltà occidentali, ottima consumatrice di whisky e di tabacco. Nazione terribilmente povera, massacrata dalla miseria e costretta a una emigrazione di massa; “bambini, preti, suore e biscotti”, gli Sean e le Sheila, ridotti a vivere nel ricordo della loro patria e a servire in Inghilterra o a cercar fortuna negli States.
Unico popolo d’Europa che mai intraprese guerre di conquista, e fu all’opposto conquistato, a più riprese, dai Danesi, dai Normanni e dagli Inglesi, vive negli anni Cinquanta la prima stabilità dopo la sanguinosa conquista dell’agognata indipendenza (1923): all’insegna d’una filosofia di vita solare, d’uno scanzonato “It Could Be Worse” così estraneo allo spirito delle nazioni occidentali, contemplando con grazia e disincanto la bellezza dolorosa della propria terra, sospesa in un tempo sempre dilatato a discrezione del cittadino: perché quando Dio creò il tempo ne fece abbastanza, e allora è inutile imporre puntualità – cosa significa “puntualità”, in fondo?
È una nazione costellata da villaggi abbandonati, dove “il tempo e gli elementi con infinita pazienza si sono divorati tutto quello che non era pietra e dalla terra crescono i cuscini su cui le ossa si posano come reliquie: il muschio e l’erba” (p. 51): i suoni gutturali dell’originaria parlata celtica echeggiano nel silenzio della desolazione e della trasandatezza; sullo sfondo, una natura libera e selvatica.
Storia d’un viaggio tra Dublino, Limerick, Athlone, e altri incantevoli luoghi; tra pellegrinaggi (tomba di Swift) e reminiscenze letterarie (ancora Swift, Joyce, Yeats), adesione empatica a uno spirito e ad una cultura e ininterrotto dialogo con i cittadini d’un popolo aperto, intelligente e coraggioso; i leprechaun della nostra Europa, anima innocente e ospitale, orgogliosamente indipendente e rispettosa delle proprie tradizioni. Cade una pioggia “assoluta, grandiosa, terrificante” (p. 85); pioggia che potrebbe aver lavato via, adesso, a cinquanta anni di distanza, l’Irlanda cantata dal grande scrittore tedesco. Noi conosciamo l’evoluzione culturale – e assistiamo allo sviluppo economico – d’un popolo che s’era mantenuto miracolosamente estraneo a certi vezzi del sistema occidentale; l’industria del turismo ha provveduto al sacco della bellezza e della selvatichezza d’una nazione. Un’opera letteraria come questa, allora, va interiorizzata prima d’un viaggio in un’isola ancora – piace illudersi – incantata; e va restituita alla luce che merita, per il suo stile aggraziato e per il suo tono intenso, appassionato e ammirato; e per l’innocenza che trasuda e tracima dalla narrazione; originata dallo spirito d’uno scrittore sensibile, e dai colori d’una nazione libera.
Tenue e gentile, “Diario d’Irlanda” è un libro che potrà contribuire alla coesione delle comunità europee in una nuova, grande Nazione. Per conoscenza e partecipazione alla diversità d’una cultura, per culto della sua unicità, apprezzamento delle analogie e godimento della sua apparente linearità. Diario visivo e non visionario, è elegia e non utopia.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Heinrich Böll, (Colonia, 1917 – Bornheim Merten, 1975), romanziere, saggista e traduttore tedesco, Premio Nobel per la Letteratura nel 1972. Esordì nel 1949 pubblicando il racconto lungo “Il treno era in orario”.
Heinrich Böll, “Diario d’Irlanda”, Mondadori, Milano 1961. Traduzione di Marianello Marianelli. Introduzione di Italo Alighiero Chiusano.
Prima edizione: “Irisches Tagebuch”, Kiepenheuer & Witsch, Köln, 1957.
“(…) nel Diario egli ci ha dato forse la sua unica, incantevole «pastorale»: un pezzo di letteratura (ma vorrei quasi dire di musica) che sa veramente di vacanza, di respiro ossigenante,di sogno o di favola che si concretano – ed è una delle note forti del libro – in un contesto coraggiosamente realistico, senza mai chiudere gli occhi alla greve presenza del dolore e della miseria. Ma è come se una possente onda vitale facesse levitare e risplendere anche le cose più lise e miserande (le spille da balia e le minuscole cabine in cui i beoni si ritirano a ubriacarsi, i villaggi abbandonati da chi ne emigrò per fame e gli asini che dispongono di stradine tutte loro)” (“Un verde tutto nuovo, di Italo Alighiero Chiusano, pag. 8)
Gianfranco Franchi, agosto 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.