Rizzoli
1975
9788845912139
Opera prima di Tommaso Landolfi, “Dialogo dei massimi sistemi” è una raccolta di racconti, composta prima dei trent’anni d’età. La categoria delle “opere prime” è croce e delizia dei lettori; tendenzialmente – primo paradosso – se ne parla con chiarezza solo a posteriori, quando l’autore è cenere o giù di lì, e ha comunque una produzione così vasta che c’è chi si diletta a pizzicare prodromi e embrioni e chi s’incarognisce a massacrare difetti e limiti, e così via.
Il secondo paradosso è che non sempre è possibile parlarne male, sic et simpliciter. C’è chi non s’accanisce sugli esordienti per un misto d’umanità e di pietà, chi cerca sempre qualcosa di buono nell’opera giudicata “mediocre” et similia. Il terzo paradosso è che, per qualche incomprensibile mistero delle patrie lettere, di solito l’opera prima (edita) racconta davvero molto di quel che accadrà a un autore, al suo stile, ai suoi topoi, alla sua scrittura in generale.
Allora vengo a parlarvi dell’opera prima d’un autore che – nel 1937, quando viene pubblicato questo suo libro in tiratura limitata, duecento copie – aveva esattamente la mia età oggi, 2007. Sono un lettore irrispettoso e non ho paura di confrontarmi con nessuno. Figuriamoci con un coetaneo. Magari è più onesto da parte mia concludere questa introduzione ribadendo che in memoria non avevo altro che il Landolfi critico; del Landolfi narratore, letto confusamente in periodo di studio furibondo e caotico, ricordavo francamente poco.
Ciò detto: m’avventurerò nella sua produzione, poco a poco, rispettando un criterio cronologico; convinto di poter condividere una riscoperta che potrebbe essere, un domani, popolare e non solo scolastica.
L’esordio di Tommaso Landolfi da Pico Farnese è una raccolta di racconti connotati fondamentalmente da una comune, talentuosa attitudine, caduta in disuso nella contemporaneità; Landolfi, questo voglio segnalarvi, è un genio delle descrizioni. È capace di non scrollarsi di dosso un colore o un ambiente o un pensiero senza aver investito periodi interi del compito di scolpirlo o di contornarlo con metodo e puntuale esibizione di padronanza della lingua (letteraria, va da sé). Inevitabilmente, come spesso accade, il talento nelle descrizioni non s’accompagna al talento nella rappresentazione o nella resa dei dialoghi; in questo libro, sono proprio letterari da cima a fondo; il che significa che non escludono d’essere ampollosi e barocconi; sono i dialoghi d’un innamorato della parola.
Ecco, gli innamorati della parola sono come quei calciatori, quando eravamo ragazzini, ai quali non dovevi per nessuna ragione al mondo passare il pallone. Avevano quattro o cinque numeri – che so, un tacco, un dribbling secco, cose del genere – e tendevano a sfoggiare quel loro repertorio in qualsiasi momento. Evitando, va da sé, di passare il pallone ai compagni (se non accidentalmente, per via di qualche rimpallo).
Per Tommaso Landolfi vale lo stesso principio. Non so come giocasse a pallone da ragazzo ma ho capito come scrive. Scrive come uno che schiuma di gioia al solo pensiero d’aver avuto un’idea, e si diverte ad arabescarla. Ne deriva che questi suoi racconti sono deboli di trama – ma questo non è un difetto – e sono deboli nelle calibrature dei personaggi – regolarmente di carta – e tuttavia costituiscono un campione piacevole di lingua letteraria italiana; esercizi di stile di uno scrittore che mostrava sin dal principio delle sue pubblicazioni attrazione nei confronti del gioco (cfr. “Night Must Fall”), una non nascosta passione per le donne (qui piuttosto voyeuristica; quando tende a realizzarsi subito s’offusca; il meglio Landolfi giovane sembra darlo da guardone), infine – e verrebbe da ribadire: fondamentalmente – una chiara dedizione alla parola, alla sua potenza e al suo mistero (cfr. racconto eponimo; al di là delle evidenti stilettate a certi poeti contemporanei innamorati del suono, ha valenza di riflessione sul linguaggio. Capita di rado).
E questa dedizione è un innamoramento che regala prepotenti irruzioni dell’autore-narratore nei racconti; non di rado ci si rivolge ai lettori direttamente, bruciando o almeno frammentando la già fiacca trama, cancellando la credibilità della storia. E alla quarta o quinta irrichiesta epifania dell’io narrante (o scrivente, come s’autodefinisce) il divertimento ha termine.
Porto a esempio quanto Landolfi scrive a p. 58, in “La morte del re di Francia”:
“Si inizia qui quella fase della vicenda narrata che si potrebbe chiamare della camminata orizzontale, e lo scrivente, in mancanza di coscienza nel suo eroe, è costretto a far capolino col suo grossolano modo d’immaginare le cose” (segue descrizione di venti, trenta righe).
Forzando la mano si può riconoscere nella solitudine uno dei tratti comuni e fondanti dei personaggi volta per volta protagonisti; una solitudine irrimediabile, e quando mutata sempre mutata male, con esito rovinoso o autodistruttivo (cfr. “Maria Giuseppa” o “La morte del re di Francia”): una solitudine fertile di osservazioni micidiali della realtà. Tanto micidiali che stancano. Naturalmente questa attitudine alle descrizioni e alle osservazioni è figlia d’un’epoca estranea alla nostra “civiltà dell’immagine”; tuttavia ritengo anche allora bastasse qualche pennellata nervosa, viva e atipica per mutare una certa percezione di pallosità. Chiaramente, per i cultori di questa attitudine, le mie parole suoneranno come musica. Fate pure.
Vi porto ad esempio quanto leggo a p. 67, nel fondante “Dialogo dei massimi sistemi”: “Parlando giocherellava, ora con un tagliacarte d’acciaio, ora con un libro rilegato che rotolava sul tavolo nel senso del taglio; spesso annusava la colla alla mandorla amara nel suo recipiente brunito, e più spesso ancora, colle lunghe e scintillanti forbici di redazione tracciava gran tagli per aria e si ravviava i baffetti all’ingiù. Sorrideva spesso contenutamene, come a se stesso, specie quando giudicava che il suo interlocutore ritenesse di averlo messo in imbarazzo. Quando si volgeva invece direttamente a qualcuno il suo sorriso era mondano e in tutto egli affettava una cortesia esagerata. Parlava piano, con gesti sobri e parole forbite, debitamente intramezzate da espressioni straniere”.
Ecco: al lettore tanto invocato rimane molto poco da immaginare, apparentemente. A me rimane da immaginare come stava Landolfi quando descriveva con questa incredibile dovizia di dettagli (la colla è “alla mandorla amara” e addirittura si trova in un “recipiente brunito”) la “realtà della narrazione”; sembra qualcuno talmente poco convinto della realtà delle cose che solo appuntandola punto per punto riesce a controllarla o a impadronirsene. Insomma, non mi stupirei se in una narrazione in prima persona piovessero gli aggettivi possessivi. Al contempo, si registra la pregevole ricchezza del vocabolario dell’autore.
È interessante appuntare la capacità di creare storie (fiacche, ossia senza nessuna trama) nelle storie; sorta di matrioska, sperimentata almeno ne “La piccola Apocalisse” e ne “La morte del re di Francia”; con tanto di vagheggiata adesione ad altro personaggio e altra prospettiva.
Incontro Tommaso Landolfi da Pico Farnese quasi fosse un contemporaneo; adesso, libro dopo libro, invecchierà e io rimarrò giovane. La mia speranza di lettore è che, pagina dopo pagina, mi si chiarisca la ragione per cui era amato dal più grande lettore italiano del Novecento, quando in Italia poteva contare, vado per eccesso, su cinquecento o mille lettori.
E adesso concludo con un passo tratto dal racconto eponimo. Probabilmente era satirico, ma da espressionista – e da nemico del realismo – non posso che esserne rimasto colpito. È un frammento d’un dialogo sul linguaggio. Ve lo trascrivo, e considerate che chi proferisce quelle parole, nel testo, non si direbbe un idolo dell’autore: si discute del suono e delle idee, e del delirio di una poesia scritta per suoni e parole d’una lingua inesistente.
“Così facendo si creerà una nuova lingua; e poco importa se monca e limitata a poche frasi (quelle del componimento), giacché ci sarà sempre chi la saprà: il suo stesso creatore; e sempre chi del componimento sia competente a giudicare: il suo stesso autore” (p. 74).
Landolfi, mica era così facile. I suoni a cui forse pensavi erano parte di una lingua – quella italiana – che non ha frasi sempre ordinatamente composte da soggetto, verbo, avverbio, articolo, complemento oggetto. Perché – non ne parli, ma dovresti saperlo – l’italiano non esiste. L’abbiamo inventato noi, noi letterati dico.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “Dialogo dei massimi sistemi”, Rizzoli, Milano, 1975.
Prima edizione: Firenze, 1937.
Apparve originariamente nella collezione di “Letteratura” – la collana che i Fratelli Parenti Editori di Firenze pubblicavano a fianco della rivista omonima – in un’edizione originale di 200 copie numerate, più una tiratura fuori serie. Venne ristampato in seguito nella raccolta antologica dei Racconti edita da Vallecchi nel 1961. Quindi, Rizzoli 1975: prima ristampa del libro dopo la prima edizione del 1937.
L’opera omnia di Landolfi è attualmente in via di pubblicazione nelle edizioni Adelphi.
Racconti contenuti nel “Dialogo dei massimi sistemi”: “Maria Giuseppa”, “La morte del re di Francia”, l’eponimo “Dialogo dei massimi sistemi”, “Mani”, “La piccola apocalisse”, “Settimana di sole”, «Night Must Fall».
Approfondimento in rete: Centro Studi Landolfiani / Wikipedia
Gianfranco Franchi, marzo 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Opera prima di Tommaso Landolfi, “Dialogo dei massimi sistemi” è una raccolta di racconti, composta prima dei trent’anni d’età…