Teseo
2000
La prima impressione trasmessa dalla lettura delle composizioni è quella di assistere ad un’espressione poetica viscerale e consapevole; l’uomo, perduto il segreto contatto con la divinità, sembra vagare cercandone tracce nella terra; e dando un nome alle orme o ai polverosi segnali del passaggio del dio pare convincersi di poter risalire all’antica radice.
È poesia liquida e viscerale; non rare le coprolalie, e frequenti le allusioni agli umori e alle secrezioni, e alternanti e improvvise le folate delle percezioni olfattive; quasi a significare una ricerca della verità non più nel cielo o nell’elezione ad un infinito ormai ridotto a rovina letteraria, ma nella terra, nella carne, nella più lacerata e cruda umanità. Quanto mi sembra più promettente in questa raccolta di poesie è l’embrione di uno scavo successivo, embrione destinato a rivelarsi titanica lettura della superficie e perlustrazione irrefrenabile della realtà, e di tutto ciò che appare. È una raccolta-laboratorio, appassionante e catartica espressione lirica, e tetra e cupa e pervasiva opposizione dell’ambiente e della realtà alle percezioni del poeta. Tutto sembra condurre all’accettazione e all’osservazione dell’esistenza e dell’io con uno sguardo quasi scevro di fantasie o immaginazioni; gli impatti, le impressioni d’un istante al limite colorano la realtà.
Si decorano “candidi polmoni”; il giorno “è una spada imbevuta di sangue”; albeggia sul viso “un velato giallo di pestilenza”; “acerbo verde striscia”. Quanto stride è un certo insistito ritorno ad immagini talmente terrene, per così dire, da risultare ingombranti: un trionfo di viscere e marcita umanità: “in questo vomito raffermo / sua sola fonte di sostentamento”; “Sepolcrale verme immondo / che delle marcescenti polpe (...)”: o ancora, baciare la “fredda musa” causa la fuoriuscita di “incontinente stimolo”; e per insistere ancora, “È un piatto male odorante / con residui di saporiti grassi (...) una violenta colica / mi ha dilavato l’animo”. Ecco, quanti miasmi e quanti odori trasmette questo “di amore, di morte”: un cadavere putrefatto che pare non stancarsi di nutrire saprofiti è la poesia; al poeta rimangono, parrebbe, frattaglie e intestini del tempo perduto, per nutrirsene quasi fosse tornato alle sue tribali cannibalesche ataviche origini. Il poeta dichiara: “regolarmente esisto / nutrendo avvizzite carni / reidratate alla vita”: e questa esistenza regolare pare, quanto mai in precedenza, orfana o vedova di luminosità e spiritualità; è all’opposto lucidità e umanità, e come canto dell’umana natura e non della natura dell’uomo va letta e apprezzata. Quale privazione ha costretto Odisseo ad andare incontro alle sirene? La morte della fantasia: tutto appare controllabile e spiegabile, e si avverte che il cielo sia offuscato dai colori della terra: e dunque l’umanità va comprimendosi e soffocando in una terra che vela la terra, e il poeta pare accorgersene e danzare nel cerchio sconsacrato delle divinità e delle illusioni perdute.
Rilevante, per concludere, la presenza di calembour, allitterazioni, omoteleuti: “dialettico nel dislettico”, ad esempio. Rilevate alcune reminiscenze ungarettiane e baudelairiane.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Enrico Pietrangeli (Roma, 1961), scrittore, poeta e traduttore.
Enrico Pietrangeli, “Di amore, di morte”, Teseo Editore, Roma, 2000. Nota introduttiva di Francesco De Girolamo. Quarta di Gino Scartaghiande.
Gianfranco Franchi, 2002.
Scheda nata, originariamente, come lettera privata.