C’era una volta un romanzo italiano che sembrava nato per far discutere: sembrava predestinato alla cinquina dello Strega, politicamente atipico e complesso com’era, sembrava scandaloso, per il radicale sionismo e per la memoria delle violenze integraliste islamiche sul suolo nazionale; profondamente romanesco, pubblicato da un editore di chiara sensibilità atlantica e democratica, in copertina un disegno del maestro Ceccato, “L’ultimo singolo di Lucio Battisti” di Adriano Angelini Sut poteva e doveva essere una delle letture più coinvolgenti e spiazzanti dell’anno. Invece, a distanza di sei mesi dall’uscita, ci si ritrova a raccogliere i cocci: allo Strega è rimasto tra i quaranta, senza nemmeno avvicinarsi alla dozzina; la rassegna stampa è stata debole (Corriere, Repubblica, Tuttolibri, Fahrenheit, L’Indice: nix, nemmeno uno sbadiglio; qualche saluto dall’underground e dalle riviste digitali, un buon articolo di Capezzone su un quotidiano destro, silenzio); buona parte della tiratura è finita bruciata, letteralmente (rogo nel magazzino). Sembra un sortilegio – c’è qualcosa che non quadra. Cinque mesi fa avevo scritto del libro (qui) ripromettendomi di tornarci più avanti: pensavo di dovermi mettere a studiare gli articoli di Emanuele Trevi e Alessandro Piperno, di Renzo Paris e di Filippo La Porta; volevo nutrirmi del loro lavoro e poi cercare di aggiungere mezza parola sul bel lavoro di Adriano Angelini Sut. Invece eccomi qua a intervistare l’artista, a chiedergli cos’è successo, a farmi raccontare tutto quanto dal principio, per capire perché questo libro non è andato (sin qua) come doveva e come poteva andare, per capire se ci sono responsabilità o se c’è qualcosa di sbagliato e basta. “L’ultimo singolo di Lucio Battisti”: dallo Strega al falò – questa è la storia di un libro maudit.
Adriano, quando hai cominciato a lavorare a questo romanzo? Quanto tempo hai dedicato alla stesura? Che ambizioni avevi, che speranze avevi? Qualche incertezza?
Ho iniziato nel 2016, finito nell’aprile del 2017. Un lavoro lungo e complesso. Ho scritto il romanzo più maturo della mia carriera, il più articolato, forse mi è riuscito. Cioè, mi è riuscito bene, me lo dicono i lettori che lo leggono. Gli altri, coloro che dovrebbero ‘criticare’, non lo leggono nemmeno. Non ho mai avuto alcuna incertezza sulla riuscita della storia. Era lì, dentro di me. Doveva solo essere tirata fuori. Credo di aver scritto uno dei romanzi più importanti del decennio, senza falsa modestia, quantomeno per originalità.
Perché hai pubblicato con Gaffi? Cosa ti ha convinto? Non hai nemmeno cercato un editore differente?
Perché ho comunque un buon rapporto con l’editore. Perché il precedente, “Jackie”, è stato ben accolto da critica e pubblico e quindi speravamo in un bis. E poi perché non posso presentarmi senza agente da Mondadori o dalla Sgarbi o da Feltrinelli e proporgli un libro che ha come protagonista un fascista convinto delle sue idee, una famiglia ebraica il cui figlio minore si arruola nell’esercito israeliano e dove Natale è un ammiratore di Lucio Battisti. E inoltre gli agenti letterari di fronte a un autore come me storcono il naso. Sono tutti alla ricerca dello scrittore di ‘sinistra’ che scriva le stesse cose che scrivono i narratori italiani da 30 anni in qua. Sono tutti allineati e coperti dietro il manto del politicamente corretto. E quei pochi autori di destra che pubblicano sono quelli già sdoganati (che hanno fatto comparsate in tv, che scrivono sui giornali ‘di destra’ ben allineati al sistema, etc). In Italia non c’è spazio per una narrativa che non sia di sinistra. Houellebecq non sarebbe mai e poi mai pubblicato.
Com’è andata la storia della candidatura allo Strega? Che effetto ti ha fatto? Cosa ti aspettavi, in realtà?
Allo Strega ci siamo andati più per vezzo che per convinzione. Il mio editore non ha la forza necessaria per imporsi, a meno di un lavorio diplomatico assiduo e profondo per provare ad arrivare nella dozzina (come già gli è successo qualche anno fa). Un lavorio che mi auguravo facesse ma che non potevo nemmeno chiedergli con troppa insistenza. I critici che ha smosso, che potevano portarmi voti, appartengono alla categoria di cui sopra, quindi avranno guardato il libro dall’alto in basso e, sdegnati, lo avranno (lo hanno) rispedito al mittente. Basta vedere come lo ha trattato la Mazzucco il giorno della lettura dei dodici, della dozzina finalista (Dio, che giornata fantozziana. Mai più accetterò di assistere a quello spettacolo da fiera di paese nel parterre della belle ville!). Si è messa a elencare i generi dei romanzi presenti nei 40 proposti. Il mio rientrava sicuramente in quelli che lei ha elencato: politico, musicale, questione ebraica. Non lo ha nemmeno degnato di una citazione di sfuggita. Lo Strega è (sarebbe) un gran bel premio. Lo hanno distrutto. Non so di chi sia la colpa. Forse da quando la narrativa italiana si è veltronizzata. Forse da quando Berlusconi (o meglio suo figlia), che imprecava contro il comunismo un giorno sì e l’altro pure, ha deciso che i direttori editoriali delle sue case editrici dovessero essere tutti allineati e coperti dietro al manto del politicamente corretto (Einaudi e Mondadori oggi sembrano una succursale di Feltrinelli). Lo Strega è finto, è quel premio dove il comunista Fulvio Abbate (perfettamente integrato nel sistema culturale italiano anche lui) si erge ad antiveltronista e antisistema e si permette di presentarsi al Ninfeo con la kefiah e sbeffeggiare gli astanti divertiti. Roba che se io decidessi di andarci con la kippah e la stella di Davide al collo le prefiche del palestinismo isterico bercerebbero come ossesse.
Cosa poteva succedere, nella comunità ebraica, se al posto del libro della Levi ci fosse stato il tuo, in cinquina? Quanto diverso poteva essere il dibattito?
Non lo so. Io sono molto legato alla comunità ebraica, quantomeno idealmente. Non ho però contatti tali da poterti dire chissà cosa. E qui voglio ringraziare Piero Di Nepi, che di quella comunità è parte, senza il quale il mio romanzo nella sua veste ebraica non sarebbe stato possibile. Il problema è che, forse giustamente, loro sono molto diffidenti; non danno aperture di credito così (e fanno bene, sai quanti amici di Israele li hanno pugnalati alle spalle?). E Lia Levi rappresenta quell’ebraismo très ancièn che rassicura. Si parla, quando si tratta di ebraismo, di shoah, di persecuzioni, di ebrei integrati dentro un binario progressista. Gli ebrei in letteratura o nel cinema devono essere così. Se parli di quelli del presente, di quelli che vivono intorno a noi, fanno i dipendenti, i commercianti, festeggiano Rosh Hashanah o Hanukkah e magari tifano per Israele, e putacaso si vanno pure ad arruolare in Tzahal… per carità. Poi, sai, Salvini e Conte fanno gli auguri per il capodanno ebraico alla comunità, mentre i politici di sinistra si prodigano a ricordare il ramadan. A ciascuno il suo.
Come giudichi la rassegna stampa, sin qua? Cosa ti ha convinto, cosa no? Chi o cosa è mancato?
Dai sulla rassegna stampa stendiamo un velo pietoso, almeno per ora. Troppo imbarazzante parlarne. A parte Daniele (Capezzone) sulla “Verità” ed Edoardo Sylos Labini sul “Giornale”, il nulla più totale (poi c’è l’on line, certo, con il direttore di “Rockol.it” che ha detto che bisognerebbe trarre un film dal mio romanzo). È mancato il coraggio, da parte della stampa, e un po’ di organizzazione da parte nostra e dell’editore. È mancata la voglia di crederci da parte di tutti, e considera che per un periodo abbiamo avuto due uffici stampa che ci lavoravano…
Come giudichi la distribuzione e la promozione del libro, sin qua? È vero che da Feltrinelli ti sei ritrovato, spesso, piazzato tra i saggi su Lucio Battisti? Com’è possibile?
Terribile. Una roba terribile. Per non parlare dei prenotati ridicoli. Sì, da Feltrinelli una volta mi hanno mandato la foto del mio libro esposto nel settore musicale. Che dire. Capisco che chi lavora lì ha tante uscire da gestire, che ci sono le rese, il magazzino ecc. Ma santo Dio, uno sguardo alla scheda dateglielo, ogni tanto, no?
Ci racconti questa storia del falò del tuo libro? È vero che adesso è sostanzialmente introvabile? Com’è possibile? Che senso ha?
Un giorno mi chiama la segretaria del mio editore, e mi dice, hai saputo? E io no, cosa? Messaggerie, che è promotore e distributore del mio editore, aveva comunicato che c’era stato un incendio nel suo magazzino (su al Nord, non so dove sia di preciso) e che insieme ad alcuni libri Mondadori erano bruciate le copie del mio romanzo, quasi 200. Pensavo a uno scherzo. Quindi ho detto, e ora le ristamperete? Sai la risposta di Gaffi? “E beh… per ora no… sai, non ci sono molte richieste dalle librerie”. Che te lo dico a fare? Meglio farcisi una risata sopra, altrimenti per un artista che si dedica al suo lavoro con passione e tenacia come me si rischia di sbroccare. Del libro non so quante copie sono rimaste in giro, mi ha detto l’editore che forse le ristampava a settembre. Vedremo. Che senso ha tutto ciò? Non ce l’ha. Come l’esistenza. È senza senso e siamo noi a doverglielo dare. Il compito più arduo che un essere umano si trovi a fare. Figuriamoci per uno scrittore che vive di nonsenso e di senso da trovare. Un libro maudit, forse sì, perché i grandi libri sono maudit, loro malgrado e malgrado il povero autore che si ritrova, spesso, a essere solo uno strumento di qualcosa di più grande. E il mio è un grande romanzo. Con buona pace dei critici che lo hanno snobbato e della Mazzucco.
Gianfranco Franchi intervista Adriano Angelini Sut, 10 settembre 2018.
Per approfondire: Adriano Angelini Sut in Porto Franco [5 recensioni+2 interviste]