Diabasis
2008
9788881036042
Permunian è un fuoriclasse: nella lingua letteraria e nella rabbia. L'incomprensibile e ingiusta perdita di visibilità (e, sospetto, la ridotta tiratura) delle sue pubblicazioni è uno dei segni limpidi e inequivocabili della decadenza del nostro tempo. Ho la sensazione, post “Dalla stiva di una nave blasfema”, che l'artista ne stia soffrendo non poco; s'alternano sprazzi di grande bellezza e malinconica intelligenza a strapiombi iconoclasti, che di satirico hanno sempre meno, piuttosto suonano livorosi, acidi, malevoli. Maligni, infine, e quando sfora quel limite poi credo che Permunian ne soffra. Dopo certi sfoghi sembra riaffiorare sempre la depressione. Non dico siano cattiverie incomprensibili – dico che s'accompagnano a una frustrazione eccessiva, e purtroppo a volte pazzesca. Il guasto è che in questo libro certe pagine livorose hanno guadagnato troppo spazio, pregiudicandone la qualità. È come se questo malessere si stesse mangiando il fegato e l'intelligenza di un artista davvero talentuoso, che dovrebbe dedicare a certe questioni magari un feroce libro di invettive, riservando a noi, suoi lettori, narrativa e poesia nuova. Da scout e consulente editoriale, sono un paio d'anni che mi batto per vedere pubblicato in particolare un suo nuovo romanzo. Bello, intelligente, satirico, pulito. Nuovo, anche – abbastanza. Necessario, per sorridere di tante cose. Tragicomico. Mi inquieta solo pensare che ai miei ritardi non abbia risposto il tempismo di qualche direttore editoriale. Di uno che possa decidere, a differenza mia, senza chiedere il permesso ad altri e senza dover convincere nessuno cosa pubblicare, e quando. In Italia c'è uno scrittore capace di pura prosa lirica, un satiro malinconico molto amato (e giustamente) dalla critica, che tanto pubblico potrebbe conquistare: con tutto il rispetto per le ottime Diabasis, ma non è un lusso che esca per loro? Intanto, la solita putrida schiera di mostri catodici imperversa nella prima e nella seconda casa editrice italiana, occupando spazi che andrebbero diversamente dedicati: all'arte, all'intelligenza. Intanto, una casa editrice come Bompiani pubblica (anche) mezzeseghe accademiche che vendono i propri romanzi agli allievi dei loro corsi universitari, o oscuri giovanottoni (e giovanottone) che dureranno (durano: visto?) quanto un caffé. Ma possibile che uno come Permunian non si debba vedere più nelle nostre librerie? Cosa abbiamo avuto in cambio?
Gli ideologizzati Wu Ming? L'artigiano Giorgio Faletti? L'autodidatta Fabio Volo? Riprendeteveli. Di volata. O passateli a qualche marchietto provinciale e periferico, che vengano a smazzarsi come tutti gli altri per uno squarcio di visibilità e tre righe su “Repubblica”, al sabato. E ridateci la Letteratura. Ridateci Permunian. Adelphi ristampa tutto Savinio? Si prenda il Savinio vivente. Veneto. Permunian è altro dal Veneto di Meneghello e Berto. È un Dino Campana della narrativa, un Boine, uno Slataper senza politica. È stile.
Romanzo famigliare composto per frammenti e interludi: visivo e cupo, “assediato dalle ombre del passato”, il narratore si sente “maschera scolorita di un carnevale finito troppo in fretta” (p. 14). Non è questione di nostalgia: il passato, scrive Permunian, non è più una “bestia famelica” che angoscia e ossessiona; la sehnsucht svapora. Di quel tempo – ecco un verso - “non rimane che il duro smalto del nulla” (p. 45). I ricordi si dissolvono in cenere, ribadisce. Adesso “ascolta” i ricordi (p. 68), quasi fossero voci senza senso. La vita sfugge: l'artista allude spesso a una terribile insonnia e a violente emicranie, “sempre con la testa invasa da rumori acuti, dolorosi. Affollata di voci che salgono irridenti da un baratro di smemoratezza” (p. 118). C'è qualcosa che sta tentando di risalire – di tornare cosciente. Non è la rabbia. Forse è il fuoco della giovinezza – il fuoco sacro della vocazione letteraria, che domanda e pretende giustizia.
L'elegia in prosa s'apre sulla memoria d'una casa del Polesine un tempo colorata, sgargiante, e oggi diroccata, fatiscente – è la casa dove è nato il narratore, le finestre sono come “occhi infantili spalancati nel vuoto” (p. 10). Il fiume delle origini è diventato un fosso. Quindi, ecco le vecchie foto degli incestuosi cugini Toti e Totina: presagio di morte, scrive Permunian, quasi maledicendo, al contempo, il bambino precoce che lui fu. “Ci sono volti un giorno amati” - scrive – “che non ritornano più dal passato in cui sono sprofondati” (p. 12). Quei cugini sono morti male, tra gli stranieri, nella ex Yugo. Massacrati da sconosciuti.
Intanto: memorie dell'alluvione del Po (1951), della furia distruttiva del fiume e delle sue rovinose conseguenze sul fisico e sulla psiche dell'artista (p. 65); dei vecchi carnevali di Venezia, della perduta fortuna delle piccole botteghe artigianali e dei negozi di periferia; imperversano anni di lussi effimeri e volgari – non più comprensibili, né sensati. I vecchi librai vanno in malora, sommersi dai debiti (p. 29); la crisi riguarda anche le vocazioni religiose. Certi monasteri si sostengono vendendo liquori alle erbe e marmellate, a un passo dalla trasformazione in “salotti agrituristici” (notevole: p. 34). La lingua veneziana, “nobile e dolce”, si è corrotta: “l'urlo o il pianto non comunicano più nulla. Si è ricorsi quindi allo schiamazzo collettivo, alla babele. Al linguaggio dei turisti e delle bestie” (p. 127).
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L'artista si richiama più volte a una cultura popolare pettegola (pettegolezzi: letame dell'ispirazione) ed estranea al falsetto: nell'arte, nella religione, nella letteratura. Rivendica una scrittura estranea al culto della letteratura: “La letteratura mi ha salvato la vita”, sostiene Permunian, è una “boutade d'imperdonabile volgarità” (p. 22) (ne sei convinto, Francesco? Ne sei sicuro?).
Adesso scrive “qualcosa di inutile, con estrema fatica” (p. 31). Le parole hanno dignità, ribadisce, è inutile sporcarle. Cosa le sporca? L'editoria a pagamento (ben detto: cfr. “Cacciatori di frodo”, p. 25), la vanità e la menzogna di certi scriventi, magari accademici e giornalisti e romanzieri (falliti) al contempo; i cattivi maestri sessantottini (p. 52); la nostra epoca avvilita e sommersa dalle chiacchiere (p. 56); gli intellettuali televisivi. Manca l'industria del libro e una chiara visione di certi guasti ibridi di distribuzione-promozione-rassegna stampa, poi ci siamo. Però qui glisso sulle tante, troppe bastonate a gente che qualcuno forse riconoscerà, e che potrebbe replicare con gli stessi toni. Ridurre queste persone a due o tre, simbolicamente, sarebbe stato decisamente meglio. Ci saremmo goduti altra, grande prosa lirica (e amnesica).
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Ultime annotazioni. In apertura, un frammento di Piovene: “(...) per scrittore veneto s'intende uno scrittore d'affanni psichici, un misto di narcisismo e di masochismo, che si arrovella a sciogliere razionalmente i suoi grovigli, avendo alle spalle quell'enorme, delirante e quasi demonico spettro di un cattolicesimo fermo sulle soglie del suo sepolcro”.
Omaggi sparsi qua e là: Ionesco, Cioran (“Squartamento), Audiberti (“Marie Dubois”, tradotta da Renato Poletti), Amelia Rosselli, Witold Gombrowicz (“Diario”), Mario Giacomelli, Cusatelli, Sergio Quinzio; infine, il meno noto Dino Coltro (“La nostra polenta quotidiana”).
Da leggere. Magari assieme all'esordio: “Cronaca di un servo felice” (Meridiano Zero, 1999). Fatevi un regalo, e per quanto riguarda questa “stiva”, trascurate la zavorra dei richiami ai letterati o agli scriventi contemporanei sgraditi o sgradevoli. È un diamante grezzo: sappiatene avere cura. Sappiatelo far scintillare.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Francesco Permunian (Cavarzere, Venezia 1951), poeta, scrittore e bibliotecario italiano. Ha esordito pubblicando “Cronaca di un servo felice” (Meridiano Zero, 1999).
Francesco Permunian, “Dalla stiva di una nave blasfema”, Diabasis, Reggio Emilia 2009. Postfazione di Fabio Pusterla. Fotografie di Gianni Fucile. Collana “Al buon corsiero”, 38.
Gianfranco Franchi, aprile 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Permunian è un fuoriclasse: nella lingua letteraria e nella rabbia.