Garzanti
2007
9788811368663
Scrive la curatrice, Gabriella Leto: “È noto che Stendhal trasse queste storie da manoscritti italiani di cui venne in possesso verso il 1833, quando si trovava a Civitavecchia. Sempre reticente sull'effettiva provenienza dei manoscritti, egli afferma ripetutamente, in varie lettere e note, l'intenzione di tradurre quelle 'storielle' di circa ottanta pagine, 'non galanti né piccanti' ma al contrario cupe e tragiche, 'perché servano alle persone intelligenti come utile complemento alla storia d'Italia nei secoli XVI e XVII e della società in cui sono nati Raffaello e Michelangelo” (pp. V e VI).
Chiarito dunque l'intento, parte informativo parte narrativo puro, andiamo a completare il quadro con quanto spiegava Maria Bellonci, nella prefazione all'edizione italiana del 1961: “(...) a Parigi furono scritte le Cronache Italiane, chiamate da Stendhal genericamente Historiettes e pubblicate senza firma in riviste letterarie. L'autore dice di trascrivere i fatti dai suoi manoscritti, ed è vero che li trascrive; ma capricciosamente, a volte trasformandoli del tutto, a volte seguendoli con una sua personale adesione fedele o saltuaria; ad ogni modo li rifà, toccandoli, per forza di stile: ed anche se non sempre lo stile riesce a fargli conseguire un esito attivo, sempre rivela però una incalzante esigenza interiore (...) Nelle Cronache, l'atto dell'esistere appare un atto di affermazione sul proprio destino, che si può convalidare anche col delitto (...) e diventa allora una sfida a ogni legge umana e superumana” (p. XX).
Lasciata la contestualizzazione e l'introduzione nelle giuste mani, quelle delle curatrici, passo alla presentazione e all'analisi di sei di questi otto racconti stendhaliani di ambientazione italiana, pubblicati disordinatamente nell'arco di circa vent'anni, assemblati quindi in volume, post mortem, nella seconda metà dell'Ottocento. Ometto volutamente i due più deboli, “Troppo favore uccide” e “Suora Scolastica”, perché mi è sembrato fossero gemelli eterozigoti; in un caso una prova per un romanzo di denuncia (scandalistico?) ambientato in un convento, nell'altro una bozza incompleta. Come se non bastasse, nel 1828 Stendhal aveva pubblicato, nelle “Passeggiate romane” un frammento decisamente simile a “Troppo favore uccide”: “Interni di un convento” (cfr. Stendhal, “Interni di un convento”, con saggio introduttivo a cura di Mariella Di Maio; Editori Riuniti Roma 1987).
Ciò detto, passiamo alle “Cronache” scelte. “La Duchesse de Palliano” è il primo; si tratta di un racconto che confonde vicende erotiche a vicende politiche, restando un po' irrisolto e rivelandosi eterogeneo; se per i tre quarti sembra una descrizione di un amorazzo finito male, infine si rivela una vicenda di loschi traffici politici e di improvvise e impetuose condanne a morte.
È ambientato a Palermo, nel luglio 1838. Nelle prime battute, Stendhal racconta d'essere venuto in Sicilia per il piacere degli occhi; riconosce similarità tra gli isolani e gli italiani solo per l'intensità delle passioni. Le passioni sfrenate che tanto affascinano Stendhal, altrimenti e altrove sopite dalle mode di Parigi e di Londra, sono l'asse portante della sua ricerca. La passione italiana, scrive, è “la passione che cerca di soddisfarsi e di non dare agli altri un'idea magnifica della nostra persona” (p. 6); comincia con la rinascita della civiltà (XII secolo) e si spegne, a certi livelli, nel 1734 (avvento dei Borboni). Per raccontare al suo pubblico cosa fosse realmente questa passione – ben distante da quella inventata dalla Radcliffe nei suoi romanzi – riferisce quanto accadde tra la Duchessa di Paliano e suo cugino Marcello, innamorato di lei, nel 1559.
L'orgogliosa Violante, aristocratica di sangue spagnolo, caduta in disgrazia ed esiliata nei pressi di Soriano, sulle prime lo rifiuta, sdegnandosi, quindi – sedotta e convinta da una cortigiana, lei stessa preda d'una passione clandestina – cede. La complicità della cortigiana si rivela un'arma a doppio taglio; quando Diana perderà il suo compagno, persuasa sia colpa della Duchessa, la tradirà rivelando tutto al Duca. Ne deriveranno fatti di sangue: una volta confessata la colpa, il Duca ucciderà sia Marcello che Diana; la Duchessa si toglierà la vita, vittima di giochi di potere pontifici e di stravaganti e precari equilibri politici, qualche mese più tardi, mentre attende di dare alla luce un bambino. Il quadro si tinge di nero: le passioni tumultuose degli aristocratici portano rovina e distruzione, distruggendo tutti gli equilibri. Degni di nota i rilievi sulla normalità della morte della moglie traditrice, in quei tempi, stando alle cronache consultate da Stendhal.
“Vittoria Accoramboni” è il secondo racconto. Strutturalmente non difforme dal primo, è un noir erotico-politico, che sembra dare ragione delle tragedie passionali alle fragili strutture giuridiche-amministrative e ai rapidi cambi di potere, in primis. Si cade in disgrazia e nulla più viene tollerato: la propria esistenza si ritrova in pericolo. Pubbliche esecuzioni succedono a fatti di sangue. La Duchessa di Bracciano è protagonista di un racconto “tradotto” da un manoscritto patavino del 1585. Stendhal non vuole che la vicenda sia sporcata dal “patetico affascinante” della scrittura di George Sand; sostiene abbia solo i “modesti pregi della storia”. Direi che vi sta sviando.
La protagonista del racconto, bellissima e graziosa, viene data in moglie, tra i tanti pretendenti, al nipote del Cardinale di Montalto, futuro Papa Sisto V. Felice, aristocratico per adozione, adorerà e vizierà la sua consorte, assecondando ogni suo capriccio e aiutando i suoi fratelli a trovare adeguata sistemazione. Caduto in un agguato, per generosità e riconoscenza proprio verso uno di quei suoi cognati, finisce massacrato a colpi d'archibugio; il cardinale suo zio tiene il lutto con dignità, meditando sulla caducità della specie umana e confidando nella vita eterna. Nemmeno di fronte al Principe Orsini, cui tutti attribuivano il mandato dell'omicidio, mostra rabbia. Intanto, Vittoria s'accasa presso l'Orsini. È il principio del disastro; caduta in disgrazia agli occhi del futuro Papa, presto vedova per una tremenda malattia che uccide il suo nuovo marito, si ritrova politicamente scoperta, viene assassinata e ne deriva un'ondata di feroci esecuzioni e violenze.
“Les Cenci”, il terzo racconto, è ambientato nel 1599. Si tratta di una meditazione sul “Don Giovanni” italiano – ben distante dal libertino mondano di Molière e dal più istintivo protagonista dell'opera di Da Ponte e Mozart. Stendhal voleva un uomo capace di sfidare l'opinione pubblica con la sua condotta; innamorato della corruzione fine a se stessa; capace di contrapporsi, con coraggio, alla morale e alla religione cattolica. Un uomo che sentisse il piacere come un trionfo, pubblico e condiviso. Un uomo orribile. Riesce a individuarlo e ce ne parla. Francesco Cenci, romano, assassinato sotto gli occhi consenzienti di moglie e figlia, era figlio di un monsignore – tesoriere del Papa – finito in (relativa) disgrazia. Ateo, alle spalle un primo matrimonio fortunato e benedetto da sette figli, Francesco visse sotto sette papi e fu tre volte imprigionato per i suoi “amori infami”; maltrattò i figli, che odiava senza ragione, e rubò l'innocenza di una figliola, Beatrice, solare e bella. Lei, assieme alla matrigna, incaricò due sicari di massacrarlo. Avvenne, e sotto la supervisione di un Monsignore. Tuttavia, la giustizia doveva fare il suo corso. Ecco la solita sequenza di delazioni, prigione, scampato pericolo, tormenti, uccisioni e compassione per la vittima di un'atrocità ingiusta; Beatrice Cenci cade, parricida d'un padre che le aveva sporcato e distrutto l'esistenza. L'unico superstite della sua famiglia contribuirà a tenerne viva la memoria.
Ecco il quarto racconto, il breve “San Francesco a Ripa”, ambientato nel 1726. Stendhal ricostruisce una vicenda capitolina settecentesca, storia d'amore tra una principessa italiana e un giovane francese in un ambiente malato di nepotismo (papalino, Orsini) e non poco corrotto. Si indagano la brutale passionalità e i sentimenti vendicativi del popolo italiano, al solito; il clima culturale e politico romano d'antan, gli intrighi politici ed erotici. La principessa di Campobasso, tenera ma passionale, e la Contessa Orsini, rivali in tutto ma non nemiche dichiarate, si sfidano per l'amore del Cavaliere di Sénecé, prima amante della Campobasso, quindi compagno clandestino della Orsini. L'epilogo nero della vicenda – la coreografica morte del francese, di fronte la chiesa eponima, a un passo dal catafalco che annuncia la sua fine – stavolta non s'accompagna a una striscia di sangue; la Campobasso, chiosa Stendhal, anni dopo, avrebbe avuto fama di donna eccezionalmente religiosa, mentre il suo protettore diveniva un influente cardinale.
“Vanina Vanini” è il quinto pezzo, ambientato nel 182*; secondo Scaraffia, curatore dell'edizione Sellerio del racconto, “è la storia del tentativo fallito di una ragazza di nobile famiglia per evadere dalla mediocrità della sua classe, ma è anche il resoconto della fine di due aspirazioni tipiche della giovinezza: l'amore e la libertà. Non a caso nella grazia ripetitiva del nome stesso della protagonista s'annida l'eco attutita dell'antico vanitas vanitatum. Un'insopprimibile ironia velo lo sguardo di Stendhal quando si posa sugli ingenui fanatismi della carboneria. Malgrado il suo culto dell'energia lo scrittore non poteva nascondersi l'esile consistenza dei vani eroismi di quegli squisiti conversatori con cui aveva diviso i teatri e le mondanità. Come constatava nei Ricordi d'egotismo, 'non ho mai conosciuto nulla di più poetico e assurdo dei liberali italiani o carbonari che, dal 1821 al 1830, riempivano i salotti liberali di Parigi'”.
Vanina, ragazza dagli occhi di fuoco, diciannovenne corteggiata da mezza Roma, è la mediterranea musa di Livio, promettente principe romano; è un illetterato, e lei disprezza la sua semplicità e la sua incapacità di avere personalità e coraggio, rifiutandolo esattamente come gli altri pretendenti. Chi conquisterà il suo cuore sarà un povero carbonaro che aveva scoperto ferito e nascosto, travestito da donna; il loro amore – burrascoso e compromesso dall'idealismo del rivoluzionario, pronto a sacrificare ogni cosa in nome del sogno d'un'Italia libera e indipendente – supererà la prova di una nuova prigionia, e di tutta una serie di pericolosi doppi giochi di Vanina, che arriverà sino a denunciare una “vendita” per salvargli la vita: venutone a conoscenza, il carbonaro, furioso, la rinnegherà. Vanina, “annientata” si sposerà con quel principe Livio che tanto le era distante. Varrebbe la pena comparare il racconto con la sua traduzione cinematografica omonima, per la regia di Rossellini: “Vanina Vanini”, pure se “irrisolto”, stando al Morandini, meriterebbe studio almeno per il differente epilogo della sorte della protagonista. Altro omaggio al libro, ma più laterale, si nascondeva in “La prima notte di quiete” di Zurlini; la giovane amante del professore (Alain Delon), la ribelle e sfortunata Vanina Abati, vivrà con lui una relazione sentimentale intensa e sfortunata: il nemico, in quel frangente, sembra essere l'esistenza stessa, non l'idealismo. L'epilogo – la sfortunata fine dell'innamorato – è analogo, e in entrambi i casi ha preteso un atto volontario da parte dei personaggi; un volontario atto di autodistruzione, più simbolico in Zurlini che in Stendhal. In entrambi i casi mi sembra aleggi una sorta di “auto-predestinazione”. Lo Stendhal di “Vanina Vanini” è nuovamente lo scrittore capace di intrecciare questioni sentimentali e politiche sino all'estremo limite della condanna a morte: un cronista cupo delle viscere della psiche, e della società.
Qualche cenno, adesso, sull'ultimo racconto scelto; il sesto, “L'Abesse de Castro”, “La badessa di Castro”, è un romanzo breve ambientato ad Albano Laziale; i due manoscritti serviti da fonte della cronaca, uno romano l'altro fiorentino, risalgono al 1598 circa. Epoca di briganti molto amati dal popolo, rimarca Stendhal, e molto utili ai principi nelle loro battaglie: Colonna o Orsini comandavano d'arruolarsi. È una vicenda melodrammatica che canta un amore impossibile, una dolorosa separazione, una relazione clandestina tra religiosi e infine il rifiuto della libertà, una volta che questa è tornata all'orizzonte; il peccato ha sporcato un sogno, la menzogna l'ha sepolto, la vita l'ha reso letterario, e invivibile. Irrecuperabile.
L'amore tra la ricca Elena e il povero Giulio, brigante figlio di briganti, avversato dalla famiglia della ragazza, era pericoloso sin dal principio: Elena era consapevole che se un uomo importante come suo padre avesse massacrato un miserabile come il suo amato, se la sarebbe cavata sparendo per una manciata di mesi e facendo un'offerta a qualche chiesa, mentre gli amici manovravano per insabbiare la questione a Roma. Il fratello e il padre erano pronti a tutto pur di impedire il matrimonio, non sembrava esserci soluzione diversa, e il tempo non avrebbe potuto cambiare le cose.
Il destino le complica ancora di più; in uno scontro armato tra truppe fedeli ai Colonna e agli Orsini Giulio uccide il fratello di Elena, senza riconoscerlo; il padre decide così di rinchiuderla in convento. Inizialmente ritrosa a incontrare furtivamente l'amato, lentamente si lascia convincere della possibilità di fuggire assieme; l'impresa fallirà. La tragica vicenda narrata da Stendhal precipita nel grottesco, a questo punto, perché in convento Elena, convinta della morte del suo valoroso brigante dalla madre, vivrà dissoluta e fredda, maltrattando a volte le suore e concedendosi qualche libertà di troppo, come una noiosa liaison con il giovane e bel vescovo di Milano; rimarrà incinta e darà alla luce un bambino. Proprio quando, dopo processi e torture, la badessa intravede uno spiraglio di speranza, ossia il ritorno di chi era creduto morto, si uccide, scrivendogli le ragioni della sua scelta in una lunga e bellissima lettera.
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Opera minore nella produzione di Stendhal, “Cronache italiane” è un suggestivo esercizio di stile e di comprensione dell'anima della nostra terra, e del nostro popolo; se filologicamente si rivela interessante pietra di paragone per comparare o assimilare i successivi capolavori agli argomenti e allo stile di queste prodromiche prove, nell'ambito degli studi sul viaggio in Italia e sulla percezione straniera dell'Italia e degli italiani è una piccola pietra miliare. Perché siamo considerati, una volta ancora, quel popolo capace di uccidere per amore, di imprigionare e di condizionare la libertà degli altri per amore o per egoismo; la nostra passionalità seduce e affascina, perché è potenzialmente distruttiva: almeno quanto la politica dei nostri governanti. Sondare fatti di cronaca risalenti a secoli lontani non fa che aumentare la potenza del messaggio che riceve il lettore. Suona tutto estremamente famigliare, torture a parte. Per scoprire quanto Stendhal ci amasse, viatico principe rimangono le “Passeggiate romane”. Per capire quanto a fondo ci stesse studiando, partite senza esitazione da questo libro.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Henry Beyle detto Stendhal (Grenoble, 1783 – Parigi, 1842), scrittore francese.
Stendhal, “Cronache italiane”, Mondadori, Milano 1990. Traduzioni di Maria Bellonci e Gabriella Leto. Introduzione di Gabriella Leto. Prefazione di Maria Bellonci. Contiene una cronologia.
Prima edizione: “Chroniques italiennes”, Vittoria Accoramboni, Les Cenci, La Duchesse de Palliano, L'Abesse de Castro, Trop de faveur tue, Suora Scolastica, San Francesco a Ripa, Vanina Vanini, Paris, 1859.
Gianfranco Franchi, febbraio 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.