Concerti senza orchestra

Concerti senza orchestra Book Cover Concerti senza orchestra
Nicola Lecca
Marsilio
1999
9788831792882

PRIMO DUBBIO

La quarta di copertina parrebbe inequivocabile: Sergio Maldini giura che l’allora poco più che ventenne Lecca abbia “scritto questi racconti come una volta: per l’eternità”. Reduce dalla lettura del libro, piuttosto allarmato per via del significato della parola “eternità”, decido di andare a consultare, a beneficio di tutti, il “Dizionario della Lingua Italiana” Devoto-Oli. Eternità – s.f. L’infinita estensione nel tempo, che non ha avuto inizio e non avrà termine: l’e di Dio”. Continuo a leggere, sperando in qualcosa di più neutro. “Più comunemente: durata senza fine, godere, soffrire per l’e. (con riferimento a una vita futura)”. Non abbiamo scampo, sembrerebbe. Sgomento, procedo. “estens. L’immortalità conferita dalla fama: aspirare all’e.”. Incredibile: e che sia di monito a chi trascura le quarte di copertina: cari lettori, tornate a leggerle, altrimenti nel prossimo libro del nuovo Lecca qualcuno scriverà che, per 10 euro e 33, si possono sfogliare i nuovi comandamenti. Senza editing, intendiamoci.

AMMISSIONE di COLPA

Se qualcuno promette eternità, m’imprigiona: dovevo leggere questo libro, nonostante trovassi discretamente di cattivo gusto la possibilità che una quarta del genere fosse fallace. M’attendevo un capolavoro e pretendevo che si trattasse di una raccolta di racconti destinata a incidere nella mia anima. Che sia chiaro sin dal principio: ritengo d’aver letto libri immortali, e m’arrogo l’intuizione dell’eternità: altrimenti non avrei potuto confrontarmi con questo volume. Dunque, è una sfida: tra spaccamontagne. Ho la vaga impressione che questo libro sia poco più che un blando eserciziario di un giovane snob, odiosamente borghese, ossessionato dalla musica classica.  Abbiamo, forse, qualcosa in comune – ma questo non ha importanza.  Confidando che avrei giudicato deliziosa l’arroganza e la presunzione di uno scrittore esordiente, se solo fosse stata corrisposta da un talento da “perfezione disperante”, e ammettendo che mi sento molto rammaricato per questa fuorviante promessa d’eternità tradita dopo una dozzina di parole, concludo le premesse ed entro nel merito.

L’ETERNITÀ?

Otto racconti. Narrazione regolarmente in prima persona. Dialogo, di norma, assente (fatico a ricordarne più di tre). Protagonisti, tendenzialmente, musicisti capaci di “impeccabili esecuzioni” (p. 67), destinati a eseguire “in prima mondiale” (p. 81), nel cuore d’una “brillante carriera” (p. 54), in cerca d’una “tecnica ineccepibile” (p. 60), o ancora e più sobriamente “affermati” (p. 59), spesso salutati da “infiniti applausi” (p. 33), d’una “platea estasiata” (p. 33) e anche in grado di riconoscere la “serena apatia dell’immortale” (p. 48), prossimi forse al “Nobel” (p. 82), in grado di affermare “ho sempre creato capolavori” (p. 93), o ancora riconosciuti “enfant prodige” tra i più interessanti d’Europa (p. 119); spesso prossimi ad un futuro “roseo e felice” (p. 54); c’è un “maestro” che parla a un “genio” (p. 24): tutti sono “onorati di poter passare la serata” con il genio in questione; nel pieno d’una “brillantissima carriera”, intendiamoci.

Ancora: c’è il mito dell’artista “sicuro e capace” (p. 30), che merita ampio dibattito. Ho conosciuto qualche artista (forse non immortale, lo riconosco): sempre individui lacerati dall’insicurezza, tormentati dalla coscienza dei propri limiti. Si vede che dovevo frequentare più musicisti che letterati, chissà? E dire che il primo racconto aveva il promettente titolo “Angoscia di un genio” (già in manicomio a dodici anni, credeva d’essere Beethoven).

Ancora: stranamente capaci di gergo ministeriale, questi personaggi sanno “addurre emicranie” (p. 31) e “obliterare” biglietti (giuro). Ovviamente, c’è chi è in grado di discutere delle proprie angosce con un’immagine di Mozart, dall’aria di “gattino spelacchiato” (p. 55) poi abbandonata tra “la puzza di pesce e le urla sguaiate della massaie” al grido di “povero genio” (p. 55). Infine, per gli amanti del kitsch, non manca un “mortale arcolaio” (p. 28) – tra le immagini più sontuose del libro. È prova d’una “grazia inaudita” (p. 29) dell’autore: come del resto la sfida nel camerino agli “spiriti della paura” (p. 33).

Quando l’ambiente che li ospita non corrisponde al loro raffinato gusto estetico e al loro naturale tenore di vita, ecco esemplificata l’immortale interazione con l’alterità: s’ascoltano “sonori rutti dei barboni” (p. 60), e d’un tratto la larga bocca d’una donna “grassa, volgare in ogni suo tratto” inizia “a eruttare una valanga di bestemmie e volgarità” (p. 61); chi è costretto a vivere col sostegno d’una cameriera ha addirittura la grande umanità di parlarle, d’ascoltare la sua “povera opinione” (p. 142); per strada, si può incappare in un “eroinomane senza denti” (p. 77) che chiede l’elemosina al semaforo, a Milano. Ma con chi assume stupefacenti i personaggi di Lecca sono assai rigidi: basti pensare che chi passa anni difficili inizia addirittura a fumare – sigarette, s’intende (p. 58) e che uno dei rivali del musicista–Dio di turno è un tossico che morirà suicida, d’overdose (ma di cocaina, per carità: roba da ricchi), a venti anni, probabilmente per la frustrazione d’aver perduto una competizione con il suddetto divino musico (p. 132).  Strani vicoli parigini, che (p. 18) “profumano di muffa e che la mattina si sarebbero riempiti di mendicanti, di ubriachi e fioraie”. Che si tratti di un musical?

Tutto nitido, all’improvviso, in questo delirante paragrafo: “Quasi sempre, nel camminare per le strade della mia Amsterdam, incrocio persone che mi nauseano per il loro modo di vestire e per quanto sono spettinate e sporche, allora mi domando chi sia, tra loro, ad acquistare i miei libri; tento di dare un volto a quelle cinquantamila persone che leggono ogni mio romanzo, e, nella certezza che quasi nessuno tra loro riesca a comprendere la decima parte di ciò che ho scritto, capisco perché i miei lettori non sono un numero superiore” (p. 143). E questo sarebbe un pezzo scritto per l’eternità? Io mi auguro che rimanga, sì: ma come insulto alla letteratura, rappresentazione della più disgustosa spocchia e della più aberrante presunzione mai esistita – s’allude allo spirito dei personaggi, intendiamoci, non certo all’anima dell’autore, che immaginiamo e auspichiamo divertita nel comporre queste grottesche parodie dell’intelligenza. Umana, ovviamente. Questo suo illuminante personaggio conclude così il monologo: “Ma, in fondo, la quantità non ha alcuna importanza: ho scritto libri che ho letto soltanto io” (ti credo) “sono, in verità, i miei lavori più validi e non li darò in pasto ai porci”. Divino! Se grufolo, chissà, m’arriva qualcosa…(ma a quali porci si riferirà questo personaggio pienamente cosciente del suo “straordinario talento”, come scrive a p. 142? Saranno mica i posteri? Gruf?)

A proposito di perle ai porci: non si risparmiano, neppure altrove, gli animali: appare un povero gatto, ma “nero e rognoso” (p. 19). Si capiscono meglio, forse, questi toni se si rivela al lettore ignaro che questo narratore parla al telefono con il concierge (non corsivato nel libro: pag. 31), non certo con un portiere (parolaccia?); e mangia croissant (non corsivato nel libro: pag. 78). Mica i vostri maritozzi.

Ma il dolore più straziante sembra essere derivato dall’ipersensibilità olfattiva di qualche personaggio. Memorabile una “vaga essenza di benzene” (in fiale?), a pagina 63. Significativa la “maledetta essenza” dello stesso racconto. Nel dettaglio: c’è chi è costretto a vivere in un “fetido borgo” (p. 54), soffrendo (poche righe dopo) per il “fetore rancido” del pesce; ad agosto, anche le anime “puzzano di pesce marcio” (p. 55); tornerà ancora la “puzza rancida del pesce”, sempre nello stesso ittico racconto (p. 61), che si concluderà con un sublime “fetore rancido del pesce marcio” che invade le case di “trecento disperati” (p. 62). Ormai il grande artista (di turno) ha cambiato casa.

C’è uno straordinario uso di aggettivi possessivi, generalizzato a ogni racconto: “mio” ricorre un numero imprecisato di volte. Perlopiù è pleonastico. Qualcosa vorrà dire: e questo qualcosa suggerirà al lettore le ragioni per cui ho evitato di entrare nel dettaglio d’ogni trama degli otto testi.  Non mancano imperdonabili ingenuità – siamo ancora ai capelli “ribelli quanto il suo animo” (p. 11), a dicembre “mese della tristezza” (p. 101), e via dicendo (perché non agosto?).

Fermiamoci qua. Sarei tentato di alludere a qualche descrizione “adrenalinica” con retrogusto alla “Shine”: evito perché leggo, nelle note, il nome di Accardo tra i consulenti musicali. Accidenti: e chi s’azzarda? M’inchino. Dopo questa immersione nell’immortalità, potrete consultare, in appendice, un “elenco dei compositori e delle loro opere menzionate”: e magari, perché no, domandarvi se basta nominare gli immortali per scrivere “per l’eternità”.

Ci saremmo accontentati di qualcosa di onesto per il presente. Davvero. Maldini si rallegra che esistano ancora giovani come Lecca. Il lettore è un po’ meno entusiasta.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Nicola Lecca (Cagliari, 1976), scrittore italiano.

Nicola Lecca, “Concerti senza orchestra”, Marsilio, Venezia, 1999.

Si sa che interpretare uno spartito musicale non è solo questione di abilità e di esercizio, che in gioco finiscono pulsioni segrete, emozioni e sentimenti, le ragioni dell’anima, i suoi inspiegati tormenti; ma è quell’incanto, la pienezza della bellezza che si rinnova ogni volta che la musica “classica” riemerge dall’ombra dei tempi, a consentirci di misurare il vuoto che intanto si è fatto d’intorno, il deserto che è rimasto dopo l’orrore, e a ridare consistenza ai nostri sogni. Non c’è nostalgia in questi 'Concerti senza orchestra' e neppure rimpianto, c’è la speranza, ora che il secolo ha fine, che si possa ricominciare da capo a suonare e ascoltare, a tremare e sognare, a vivere insomma” (Cesare De Michelis – seconda di copertina dell’edizione esaminata. 1999).

Gianfranco Franchi, febbraio 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.