RIzzoli
2000
9788817202930
“Pietro non ne provò nessun piacere, perché il senso disagevole d’una menzogna indefinibile l’opprimeva. L’aspettò soltanto per non mancare a ciò che egli stesso le aveva chiesto” (p. 118)
“Con gli occhi chiusi”, primo romanzo di Federigo Tozzi (se s’eccettua l’incompiuto “Adele”, pubblicato postumo nel 1979), è un’opera poliedrica: da un lato è trasfigurazione autobiografica, da un lato letteratura documentaristica della vita nelle campagne toscane del primo Novecento, da un lato romanzo sentimentale e da un altro romanzo di formazione. Se non sempre persuade nella rappresentazione naturalistica della vita dei braccianti, diversamente risulta coinvolgente e seducente nella sua macabra vena di (de)formazione della psiche del protagonista, e nella trattazione del suo infelice amore per la selvatica e bugiarda contadinella Ghìsola.
È un grande libro sulla menzogna: c’è chi mente per preservare un’immagine di sé che non ha più senso di esistere, rivendicando una nutrita serie di vantaggi personali, come Ghìsola, e c’è chi inganna se stesso pur di non ammettere la veridicità delle proprie percezioni, come Pietro; c’è chi preferisce tacere e dissimulare per non influire sul progettato matrimonio tra Pietro e Ghìsola – ed è un soggetto indefinibile altrimenti che come “popolo”, per quel che questa parola può voler dire – pur avendo coscienza delle menzogne e dell’opportunismo di lei. È un grande libro sulla menzogna dei moralismi e delle differenze tra le classi sociali: Pietro e Ghìsola sembrano, in frangenti differenti e per ragioni differenti, egualmente vittime d’un sistema che impedisce loro un’autentica libertà d’azione e d’espressione, condizionandoli a rispettare e a difendere “immagine”, ruolo, status; l’amore che poteva nascere sin dall’adolescenza è subito ostacolato dalla distanza tra la nipote dei servi e il figlio dei padroni; pretende frustrazione e implica inibizione, perché non può concludersi prima della sua legittimazione religiosa e civile; suggerisce infine la lettura dell’insofferenza di Ghìsola nei confronti dei vincoli sociali e morali – Ghìsola è una giovane donna che non conosce padroni, e vive la sessualità con totale spontaneità: s’unisce con chi desidera, e per questo deve nascondersi e mascherare la sua condotta; che finisca a lavorare in un bordello non stupisce, considerando il clima del tempo e l’intolleranza nei confronti di quel che istinto e natura possono pretendere, o desiderio originare.
È il romanzo di un giovane infelice, disadattato e ossessionato: Pietro non conosce leggerezza, semplicità e passionalità; ogniqualvolta s’innamora d’un’idea – sia questa una donna, o una consapevolezza – aderisce ad essa sino a disperarsene; non sa amare, perché vuole impadronirsi di quel che ama; e quel che ama non è altro che la sua rappresentazione, e quindi una deviazione e un’alterazione della realtà, una violazione dell’essenza d’ogni altra creatura umana. In più d’una circostanza Ghìsola s’offrirà al suo desiderio; non è più pura – benché lui voglia illudersi che così sia – e non è più sua (del resto, non è mai stata sua e basta); è una donna libera quanto poteva esserlo una popolana delle campagne toscane del primo Novecento. È splendida e seducente: ma Pietro non trova il coraggio d’amarla, perché vuole che tutto avvenga solo quando la ragazza sia diventata sua, legalmente, moralmente, socialmente e via dicendo. Quando, in altre parole, Ghìsola non sarebbe esistita più: perché sarebbe diventata una moglie borghese, priva del fascino della creatura imprevedibile e inaccessibile e orgogliosamente indipendente che fino a quel momento era stata. Tozzi conclude il romanzo con un bel primo piano del ventre gravido di Ghìsola, puttana in un casino, di fronte allo sguardo basito e depresso di Pietro: giunto fin là non per intelligenza, ma per via d’una delazione, smette d’amare l’idea di una donna che è decisamente troppo reale. E dire che poteva essere più imbarazzato, sin dall’adolescenza, per via delle ambiguità e delle “libertà” di lei; che tutti sussurravano ma lui non voleva ascoltare; oppure, preferiva trascurare, continuando a scolpire la sua (i)dea.
Pietro è un personaggio cupo, introverso e lunare. “Tra i compagni, si sentiva un giovine che aveva già troppo vissuto più di loro. Ecco perché, con simpatia e volentieri, li chiamava ragazzi. Il loro modo di comportarsi verso gli insegnanti gli dava un senso di compatimento. Ma non riesciva a ridere di quel che li divertiva; e, molte volte, se ne mostrava seccato e li rimproverava. Stava bene sul letto, con gli occhi chiusi” (p. 93): è un solitario, incapace di contemplare altro che non sia il suo ombelico; è un estraneo all’esistenza e alla socialità, destinato a rovinare le vite delle persone che avvicinerà o che gli si avvicineranno; perché è ripiegato e rivolto soltanto in se stesso, e altro non può comprendere, né ascoltare.
La distanza tra Pietro e il padre, Domenico, è immensa. Domenico è un ex contadino divenuto, giovanissimo, padrone d’una trattoria che ha gestito e gestisce con determinazione e autorità. I suoi fratelli e le sue sorelle sono rimasti poveri, a combattere con la Maremma. Domenico ha avuto tanti figli, tutti morti in fasce: eccetto Pietro, l’ottavo. È un uomo certamente rude ma solido e risoluto; tradisce la moglie senza malizia, con una naturalezza implacabile, estranea a qualsiasi cattiveria. È rispettato dai suoi braccianti: la sua potestà non è discussa. Ha un carisma magnetico e autentico.
Pietro è un ragazzino – nelle prime pagine – che già ammette di sentire “terribile benessere” (p. 12) mentre si estrania, soggiogato da quel “fascino d’allontanamento” dalla realtà. Vede le persone come un “incubo oscillante e pensante”, sente “disagio e impaccio” di fronte a Ghìsola e soltanto nei sogni percepisce e ammette la sua “cattiveria”.
Crescendo, non conosce allegrezza senza nervosismo; è gracile, pallido, spesso malato. Si rifugia nei libri, rifiutando l’istruzione scolastica e perdendo anni su anni. Conquista l’estraneità dal padre – giocando al piccolo socialista, fin quando non avvertirà disagio anche tra gli operai (p. 93) – e si limita a vagheggiare Ghìsola, senza riuscire ad averla mai.
La contrapposizione tra le due figure è fin troppo evidente: l’antitesi è talmente chiara da risultare artificiosa. Descrivere esistenze tanto distanti suggerisce che ci sia stato un tentativo esasperato di differenziarsi da un modello: Pietro ha rifiutato d’essere l’uomo che vedeva nel padre, divenendo uno spettro.
A Pietro è mancata la capacità di distinguersi, di differenziarsi dal paradigma che giudicava sbagliato: ha saputo distruggere, ma non creare o costruire qualcosa di nuovo. Ha vissuto una grande vita di pensiero: ma questi pensieri non sono stati esternati nel romanzo. Quali siano stati è e rimane un mistero.
Per ogni essere vivente, che non fosse “Ghìsola” (si virgoletta, perché non era la reale Ghìsola, ma la sua “interpretazione” di lei), ha nutrito avversione o indifferenza, osservando il mondo con “mansuetudine mistica” (p. 96: cosa significherà mai?), sognando qualcosa di “nuovo ed insolito” che non sa nominare.
Ghìsola è un’adorabile bugiarda, sin dall’adolescenza. Sinceramente egoista, è sensuale, provocante e astuta e non conosce scrupolo. Sa mentire con tempismo e femminile maestria. È maestra d’opportunismo e ogni suo sorriso è miele velenoso; è ambiziosa e ostinata, e vuole – come scrive Tozzi – fare “il comodo suo” (p. 55). Qual è, allora, il suo limite? Quello d’aver sbagliato secolo e società, per così dire: questo romanzo ci regala, forse involontariamente, una figura femminile totalmente emancipata e condannata alla corruzione soltanto dalla mediocrità e dal moralismo del suo tempo; e lo sfortunato protagonista conclude la sua parabola tornando, (congetturiamo) sul letto – ad occhi chiusi. E a mani vuote.
Quel che poteva essere non è stato: ma l’amore degli ossessionati è una negazione dell’intelligenza, non ha passione e non ha poesia; è un dettato, ripetitivo e saturo di bugie. “Con gli occhi chiusi” può essere considerato un ottimo romanzo di riflessione sui meccanismi della nostra psiche: una frattura febbrile e naif con la tradizione ottocentesca. Da leggere.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Federigo Tozzi (Siena, 1883 – Roma, 1920), poeta, novellista, giornalista e romanziere italiano. Esordì pubblicando la raccolta di versi “La zampogna verde” nel 1911. L’anno successivo fondò, assieme a Giuliotti, la rivista “La Torre” (“organo della reazione spirituale italiana”). Morì di febbre spagnola nel 1920.
Federigo Tozzi, “Con gli occhi chiusi”, Mondadori, Milano 1994.
Prima edizione: Treves, Milano 1919. Il romanzo è stato scritto tra 1908 e 1915.
Traduzione cinematografica: “Con gli occhi chiusi”, di Francesca Archibugi (1994).
Gianfranco Franchi, novembre 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.