Edizioni Creativa
2007
9788889841235
Opera prima di Fiorenza Aste, letterata trentina classe 1961, “Cocci di bottiglia” è una raccolta di dodici racconti, scritti – leggiamo nella prefazione – “qualche anno fa”. Introduce Antonella Lattanzi: “Cocci di bottiglia è il libro delle piccole cose. Sensazioni, più che grandi avvenimenti. Particolari minimi, a spalancare un’orda di ricordi. Tutto il dolore concentrato nel verde di un cappotto, la morte di una madre in porte legate e case vuote, l’amore fraterno in una zuppa di biscotti e latte, la solitudine, dentro una casa famigliare. Un crepuscolarismo lirico, ma non patetico, che ha certi attimi piccoli e terribili, e certi altri che sembrano minuscole albe per bambini (…) È una scrittura sincera. È nuda. La nudità di una pre-adolescente. Non conosce bugie. Non le ha mai sentite. Non le ha mai dette”.
È il libro delle sfumature delle rimozioni: è un ritorno dell’ombra alla vita, del segreto alla luce, del desiderio alla consapevolezza. Per periodi brevi, calibrati e levigati con sofferenza e femminilità, a incidere sulla carta, su una carta che è carne, frammenti isolati fotogramma per fotogramma, come in un ralenti. Siamo registi senza espressione, osserviamo soltanto. La regressione è quel freddo che non conosce rimedio. Questi sono frammenti dell’anima, vanno accuditi e confortati: Orfeo conosce il potere del suono che rinnova e restituisce quel che è perduto, la sua voce plasma i corpi e gli ambienti come argilla, determina e impone rigenerazione; soltanto, ché questa è la condizione del canto, deve rinunciare a sé, rianimando quel che è stato. Rinunciare a essere io, frantumarsi: non sgretolarsi, andarsene disperso per piccoli pezzi, mosaico del vero che non potremo ordinare. Se non scrivendo. Scrivere come Fiorenza Aste, in questo suo esordio, è scrivere di quel freddo che non ha eteronimi; è quel freddo immutabile, irrinunciabile, perfetto, strati di vita infranti dal tempo.
E così la scrittrice non polverizza il passato; lo confonde, lo mescola, a volte lo disarticola. E quel periodare breve non si fa singhiozzo, ma sospiro; oppure: respiro d’un’anima che ha interiorizzato il termine, s’è accorta del potere di quel che non è, e canta: come chi conosce la poesia delle piccole cose. Come quel poeta romano morto a vent’anni, che così scriveva:
«Dicono le povere piccole cose: Oh soffochiamo d’ombra! Il nostro amico se ne è andato da troppo tempo: non tornerà più. Chiuse la finestra, la porta; il suo passo cadde nel silenzio del lungo corridoio in cui non s’accoglie mai sole, come nel vano delle campane immote, poi la solitudine stese il suo tappeto verde e tutto finì. Qualche cosa in noi si schianta, qualche cosa che il nostro amico direbbe: cuore. Siamo delle vecchie vergini, chiuse nell’ombra come nella bara. E abbiamo i fiori. (…) Noi non dormiamo; noi siamo le eterne ascoltatrici, noi siamo il silenzio che vede e che ascolta: il visibile silenzio. (…) Un passo. Una mano tenta la chiave… oh, non spasimiamo: è un bambino, è il solito bambino di tutti i giorni, che passa lungo il corridoio per andare chi sa dove; non spasimiamo, è inutile» (Sergio Corazzini, “Soliloquio delle cose”).
Ecco, Fiorenza Aste qui non dorme: è l’eterna ascoltatrice, il silenzio che vede e ascolta. Perché tutto ha osservato e ascoltato con consapevolezza, e adesso quel tutto ritorna, per via d’un profumo (lei direbbe: “odore”, ma degli odori parleremo più avanti) mentre un suo personaggio si dedica a sprofondare nel flusso di coscienza, magari con la scusa d’un ritiro in cucina. Là, nel silenzio apparente, dentro c’è un torrente che sta fracassando gli argini.
“Vivo mentre mescolo piano il riso nella pentola. Ci sono io in questa pentola. Insieme al riso. Vivo mentre asciugo le tazze bianche dall’acqua bollente. Tocco questa materia concreta e calda. Vivo. Ogni gesto tracciato nell’aria nella scomposizione della sua traiettoria. Ogni cosa scavata nell’aria. Ogni cosa densa dotata di corpo. Significativa. Non l’ho fatto apposta. È venuto da sé. A un certo punto semplicemente nulla ha avuto più importanza. Nulla che non fosse vivere”. (Fiorenza Aste, “Le ombre e le cose”. IV, “Le mani”).
E vorrei confrontare questo splendido passo – io dico poesia in prosa, non prosa lirica; e mi meraviglio ancora di quanto lirica sappia essere la quotidianità, per chi ha cuore di artista, proprio nei frangenti di routine per gli apparentemente nostri simili – con i versi di un altro giovane poeta, Karlsen, uno della nostra generazione:
“Di quando lavo i piatti, / cioè l’immortalità, nel gesto minimo / del tuo respiro e dietro di te / quasi le stelle e il dubbio dell’uomo / se intervenire, non intervenire / alla radice sulla natura. / L’uva servita nell’orgia / ai convitati ubriachi era prima di semi: / i gesti minimi col dubbio e l’amore / tuo e mio, che a breve verranno perduti” (Patrick Karlsen, “La pace”).
Ecco, Fiorenza: “Di quando lavo i piatti, / cioè l’immortalità nel gesto minimo”; del tuo respiro, e dietro di te, e sovviene l’eterno. Non è questione di quel che accade, ma di quel che si ripete: la meditazione consapevole nasce dalla consapevolezza della ripetizione degli atti; allora riemergono gli ossi di seppia che non possiamo abbandonare, e l’odore non ti può confondere affatto. Perché non ha nome, è soltanto freddo. Possiamo farne letteratura.
L’artista racconta la tecnica fondante della sua narrativa: “I racconti sono elaborati con la stessa tecnica adoperata da Bacon, quella del ‘diagramma’. Funziona così: Bacon iniziava un quadro e poi, quando ne aveva delineato la figura principale, aggiungeva al dipinto una serie di segni casuali, che trasformavano la figura stessa in qualcosa di nuovo, che Bacon continuava a evolvere ripetendo il medesimo processo. Il diagramma era in realtà per lui l’espressione dell’inconscio: i segni casuali venivano direttamente dal di dentro. Io provo a fare lo stesso: in certi punti di snodo, i più profondi, ho provato a stendere le parole come venivano fuori, come volevano loro, e poi a rielaborare il resto con le nuove parole venute a galla. Le parole create hanno così un’origine interna, inconscia (…)”
Così abbiamo inteso: non è questione di bugie di un’innocente, è questione di lotta con sé stesse per restituirsi quel che è andato dimenticato. L’oblio non è sempre una menzogna. Perché dimentichiamo? Paura, dolore, rabbia, autoprotezione. Dimentichiamo per non soffrire. Dimentichiamo perché non è il momento di affrontarci. Soprattutto: dimentichiamo perché non c’è spazio.
Lo spazio non è infinito, e a volte certi ricordi si nascondono dove non dovrebbero. Come una lettera, una foto o un anello. Fiorenza Aste ha deciso di affrontare gli spettri; li ha sopravanzati, dopo averli nominati e mascherati; li ha esorcizzati e sospesi, adesso riposano sulla carta. L’esercizio va salutato con rispetto e ammirazione.
Perché la consapevolezza, qui, non manca davvero: “È perché leggo troppo che sono così. Noi tutti siamo condannati a sapere. Sdraiati sui letti e sui divani e condannati a sapere. Non è una bella cosa (…) Tutta questa gente condannata a sapere. Anche i bambini. Così piccoli e già vecchi. Decrepiti. Sentono gli scricchiolii e vedono le crepe, subito. Aprono gli occhi e sanno già” (p. 63 e p. 73: fondamentale il racconto “Scirocco”).
And I Remember When We Were Young, cantava Ian Curtis poco più che ventenne. “Avrei voglia di dormire” – subito – “ma non questo sdraiarsi sfinito senza riposo”. Dice un maschio, a un tratto. Mascherare l’essenza è un gioco.
Quando la Aste descrive certe scene, come ne “Il vestito verde”, ci ritroviamo in un film della Nouvelle Vague. Rohmer, per dire. Il desiderio inatteso, espresso ma non realizzato; e quando realizzato, rimosso (“Vieni via di qui”). Sognato. Videmus enim nunc in speculo, et aenigmate; tunc autem facie ad faciem, I Cor. XIII, 12: senza essere guardati da un’ombra, mente adoriamo la bellezza, nel silenzio della fantasia (“La finestra”). Adesso cerchiamo quel che non può apparire senza fatica, come nella vecchia cornice d’una foto non tanto vecchia (“Le ombre e le cose” – I, “Le ombre”) che racconta qualcosa che più non è. Come in “Blow Up”, guardare non basta. No. E non significa niente.
Infine, qualche nota sugli odori. Al di là del racconto “L’odore della neve”, storia di una bambina che non aveva deciso di diventare donna ma donna era diventata, l’odore (“c’è ancora, ma non riesco più a vedere mia madre”: p. 101), è “fossile”, “grasso di catrame”, “cibi unti, e fiori, fiori caldi evaporati dal sole” (p. 101), “di forte, forse menta, o liquirizia, che si mescola allo sbuffo del gas di scarico” (p. 107); “desolato” (p. 109), “strano, sconosciuto”, “quieto” (!, p. 120), “di caldo, di coperte di lana”, “di caldo che sfugge tra le stecche verniciate di azzurro” (p. 120), “secco della macchia. È selvatico e violento. È buono” (p. 121), “strano, saponoso, che gratta in gola. Forse è il fiore di qualche pianta” (p. 122). Ancora, altrove: la musica gratta, piange. E poi, fa un odore. “Come di erba. Sì, di vento. Di pioggia” (p. 33); la morte è “L’odore. Quell’odore di ferro. Anche se il taglio non sanguinava più c’era quell’odore dappertutto” (p. 35). Ancora, altrove: “Quell’odore. Si sente quell’odore appena si entra dalla porta di casa. Non sa che odore è. È l’odore della casa” (p. 39). Ci siamo quasi. “Il suo odore di sapone. Un buon odore. Amaro. L’odore di un bambino lavato dalla mamma e di dopobarba da uomo. Si ricorda anche l’odore di fumo del bar” (p. 57).
Dovrebbe essere chiaro che siamo di fronte a un genio della letteratura olfattiva, che potrebbe campionare, in futuro, una gran quantità di altri profumi e restituirli in maniera così lirica, alfabetizzandoci a quel che non sappiamo riconoscere. Mi sembra che sia qualcosa di relativamente nuovo, nella nostra Letteratura Italiana. Soprattutto: quando un artista ha questo senso più sviluppato, non riesce mai a restituirci nomi e associazioni adatte. Fiorenza Aste da Rovereto sì.
L’opera è stata pubblicata nella collana “Declinato al femminile” diretta da Francesca Mazzucato, per le piccole e indipendenti Edizioni Creativa. (“Anche qui, tra poco, sorgerà la luna”).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Fiorenza Aste (Rovereto?, 1961), scrittrice italiana. Vive a Rovereto, dove insegna in una scuola elementare. Ha fatto parte della redazione di “Storie” (Leconte Editore). Collabora come critica letteraria con diversi siti web. Cura il blog “Soglie e Flussi”.
Fiorenza Aste, “Cocci di bottiglia”, Edizioni Creativa, Napoli 2007. Collana “Declinato al femminile”, diretta da Francesca Mazzucato. Prefazione di Antonella Lattanzi.
Gianfranco Franchi, settembre 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.