Canti orfici

Canti orfici Book Cover Canti orfici
Dino Campana
Einaudi
2014
9788806221140

Un primitivo, un poeta incendiato dal fuoco sacro dell’ispirazione, una traduzione italiana del maledettismo francese; un puro talento lirico, sintesi delle espressioni letterarie del tardo Ottocento; o, per dirla con le parole di Papini, “un malato di spirito, preso dal fuoco della poesia, ma senza l’equilibrio per essere un buon poeta”. Un pericoloso malato di mente, per tanti suoi contemporanei meno raffinati del Papini: condannato all’isolamento e all’annichilimento totale da chi gli era a fianco, si spense, recluso in manicomio, dimenticato, sempre più debilitato e alterato sino al deterioramento finale della sua mente per via degli eccessivi elettroshock. Il padre, già da tempo, sosteneva che la sua psiche fosse “avvelenata, esaltata, pervertita”, incapace di affetti. La verità non potremo mai conoscerla: e in fondo, l’interpretazione sublime della sua parabola esistenziale, curata da Vassalli, lascia nel lettore qualche comprensibile perplessità sulla natura della diversità intellettuale e spirituale del nostro.

Dino Campana, nato a Marradi nel 1885, ouverture della poesia europea del novecento. Una poesia di vagabondaggio e ricerca e pura letterarietà, vita che inneggia alla vita. Campana era fondato della stessa sostanza di Dioniso. Era puramente istintivo e visionario, e ancorato e inscindibilmente vincolato alla fiducia nel verbo. La sua esistenza rifletteva la sua cieca fedeltà all’ideale: e quell’ideale, nei suoi eccessi e nelle sue esasperazioni, echeggiava sinistro e spaventoso nelle anime dei suoi contemporanei. Campana rappresentava la libertà della poesia, e la purezza dei sentimenti e delle sensazioni sino alle più crude e tragiche loro espressioni: capace di sentimenti perfetti e immutabili, di istanti eternamente cristallizzati nella loro bellezza, assecondava l’istinto distruttivo e nietszchiano all’intransigenza più netta nell’ossessiva tensione al disordine armonioso della ricerca artistica. Il mito mistico e selvaggio, come lo definisce nella prosa d’apertura(“La notte”) dei “Canti Orfici”, suo unico libro (stampato a proprie spese nel 1914, dopo aver ricevuto una sequenza di rifiuti da parte degli editori dell’epoca); il mito mistico e selvaggio dell’antichissima libera vita, della sublime estasi sensuale e spirituale dionisiaca, dell’archetipo dell’artista bruciato dal sole.

Per l’amor dei poeti, porte / Aperte de la morte / Su l’infinito! / Per l’amor dei poeti / Principessa il mio sogno vanito / Nei gorghi de la Sorte!” (“La speranza”)

La morte, l’infinito e la bellezza sembrano potersi evidenziare come i tre principali topoi della sua povera incompiuta opera. La morte è il segno della conoscenza: il poeta deve essere viaggiatore e ricercatore instancabile, comprendere e patire e vedere e purificarsi nell’empatica trasmissione dell’esperienza: il poeta deve essere la memoria genetica della razza umana per poter assumere i panni di Orfeo. Vede l’infinito e sente l’eterno chi ha chiara la prigionia della caducità dell’esistenza terrena, e altrettanto chiaramente percepisce e definisce sentimenti e sensazioni dell’umanità: Orfeo discende negli inferi e oltrepassa confini e limiti e incanta e libera; l’infinito si staglia nello sguardo, nella visione è più corretto dire, di chi ha sublimato gioia e sofferenza, e in tutto ciò che esiste scopre significato. E il significato spesso è la purezza di cristallo dell’ombra, e la vivace e luttuosa gioia della natura, e l’imperfezione che tutto avvolge e tutto domina.

La bellezza è nel sentiero del viandante. La bellezza delle giovani fiorentine che Campana incontra, e la bellezza dell’espressione selvatica e imperiosa della natura, e della solitudine notturna; spesso il nostro si appella al sorriso notturno del dolore, e invoca la protezione sull’anima del poeta notturno; esemplificazione splendida di come cerchi l’ombra chi già ha crepitato nel sole, e di quel sole vive, inestinguibile e innocente e aperto e desideroso di cercare nelle parole il simbolo di quella luce che già ha spalancato finestre e scardinato porte e scoperchiato tetti della sua anima. Impressiona e suggestiona la musicalità della lingua del Campana: frequentissime allitterazioni, non sporadici gli omoteleuti, ben architettate le anafore; sorprendono versi espressi quasi fossero formule, ripetendo quasi meccanicamente la stessa parola. È un segno della “possessione” del furor creativo: il ritmo della poesia si fa interiore, le parole svelano un nuovo significato e una nuova forma, oserei dire, per via della nuova disposizione che assumono nel contesto del verso. In altro senso, quelle parole appaiono della natura primigenia e impronunciabile del Suono: e colpisce, lascia impietriti, ascoltare nelle liriche e luminose prose dei “Canti Orfici” il suono dei passi della ricerca del poeta di Marradi, attirato e accompagnato a tratti da quel Suono primo che l’ha incantato e forgiato e nominato poeta orfico, governandolo e ispirandolo della ricerca dell’espressione del verbo. Verbo che sia, e sappia apparire, liberazione, catarsi, dissoluzione degli artifici e Verità.

Dino Campana fu internato per quattordici anni, prima di morire. Quattordici anni di ricerche sono serviti al talentuoso letterato Sebastiano Vassalli per scriverne la biografia, altrove e altrimenti definita romanzo-verità: rappresenta uno dei casi più plateali di totale adesione di un artista ad un artista, divenuto simbolo essenziale ed emblema nella propria ricerca, e una delle più splendide letture empatiche dell’esistenza e dell’opera di un artista scomparso. È un’opera monumentale: la prima definitiva testimonianza di una comprensione granitica e favolosamente incisiva di uno spirito perduto e di un artista incompreso, accusato di essere pazzo addirittura dai compagni letterati del tempo. La scrittrice ed esteta Sibilla Aleramo non ha mai saputo raccontare la storia della sua celeberrima, o famigerata almeno, “maledetta” relazione con Campana. Solo nel 1958, pochi anni prima di abbandonare quell’esistenza che aveva tradotto senza difficoltà in opera d’arte, acconsentì alla pubblicazione del carteggio epistolare, drammaticamente concluso dall’addio di fronte alle porte di un manicomio nel 1918. Mai Sibilla aveva inteso la reale portata e la reale essenza di quella che sentiva come una vocazione dell’amato alla fuga e all’annientamento. L’opera unica del nostro, “Canti Orfici”, rimane scolpita nella storia letteraria del nostro Paese come una delle massime affermazioni della poesia e della prosa d’arte italiana del primo Novecento.

Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza?” (“Il viaggio e il ritorno”)

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Dino Campana (Marradi, 1885-Castel Pulci, 1932), poeta italiano.

D. Campana, “Canti orfici”, a cura di N. Bonifazi, Garzanti, 1989.

D. Campana – S.Aleramo, “Un viaggio chiamato amore - lettere1916-1918”, a cura di B.Conti, Feltrinelli, Milano, 2000.

D. Campana, “Opere”, a cura di S.Vassalli e C.Fini, Tea, 1989.

S. Vassalli, “La notte della cometa. Il romanzo di Dino Campana”, Einaudi, Torino, 1984.

Gianfranco Franchi, aprile 2002.

Prima pubblicazione: ciao.com – a ruota, Lankelot.