Mondadori
2010
9788804546757
Antonio Pennacchi torna sul sentiero difficile e stupendo della pacificazione, della battaglia estetica e culturale per la memoria condivisa, del gran romanzo popolare e non populista, consacrando il suo nuovo romanzo, "Canale Mussolini" (Mondadori, pp. 464, euro 20), alla storia della sua città, Latina, e della terra d'adozione della sua famiglia, l'Agro Pontino. E riesce nell'impresa. Riesce perché in questo libro si riconoscono, naturalmente, passione, onestà e dedizione; riesce perché ha saputo documentarsi con precisione e accuratezza, smentendo pregiudizi e stereotipi di tutte le fazioni; riesce perché sente, confida nella breve prefazione, che questo sia il libro per cui è venuto al mondo. E che ogni altra cosa che ha fatto in vita sua, bello o brutta che fosse, è stata interludio o preparazione a questa.
"Canale Mussolini" è solo apparentemente una saga famigliare; in realtà, è una ciclopica opera di storia e di memoria di un esodo rimosso dalla cultura italiana; quello dei trentamila agricoltori e operai veneti, friulani e romagnoli che, in una manciata d'anni, vennero trasferiti nell'Agro, destinati a fare l'impresa della bonifica d'una terra tormentata dalla malaria. Le loro erano famiglie proletarie, in cui i figli erano e restavano una ricchezza, perchè servivano a lavorare la terra. Erano famiglie poverissime, abbandonate dall'Italia savoiarda al loro destino: "La politica, i diritti civili, il parlamento, lo Statuto albertino" erano roba per signori; erano roba per chi aveva diritto di voto – nè poveri, nè donne. Erano famiglie predestinate all'emigrazione, come centinaia di migliaia di altre, in quel periodo storico; soltanto, poterono emigrare in Italia. Certo, "Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui? Lì eravamo sempre stati [...]".
Pennacchi sceglie una famiglia su tutte – quella dei Peruzzi – e incrocia con intelligenza i loro destini, sin dagli anni Dieci, con quelli dei socialisti, e dei sindacalisti rivoluzionari. Così, incontriamo i loro leader dell'epoca; incontriamo il giovane Rossoni, uno capace di farsi tre comizi in un giorno, appassionato tribuno della plebe, capace di finire in carcere per l'Idea, e il giovane Mussolini, ancora carismatico e iconoclasta leader d'un socialismo radicale, nemico del capitale e delle guerre dei capitalisti. Incontriamo De Ambris, una manciata d'anni prima dell'impresa fiumana, e Pietro Nenni, romagnolo repubblicano, prima ancora d'essere socialista, una parentesi nelle patrie galere al fianco del futuro duce. Man mano che la nazione scivola nel fascismo, dopo i dolorosi anni della Prima Guerra Mondiale, i Peruzzi sembrano aderire perché hanno fiducia nei loro vecchi amici e leader, Rossoni e Mussolini; sentono di non poter essere traditi, hanno la sensazione che la strada sia giusta. "Fatto sta che nel 1920 i miei zii si erano messi col fascio di Ferrara e andavano tutti i giorni in giro per i paesi della Bonifica Ferrarese con i camioni, i 18BL avanzati dalla guerra. Tra novembre e dicembre li hanno messi a ferro e fuoco tutti. Bruciate le camere del lavoro, sezioni socialiste e leghe. Quegli altri – i rossi – non è che stessero a guardare. Sparavano. Reagivano. Si difendevano. Ma ogni giorno sempre di meno. Lo scontro era militare ormai – guerra civile – tu di qua e io di là".
Questa cieca fiducia del popolo, e della paradigmatica famiglia Peruzzi, nella buona fede e nella generosità dei vecchi socialisti diventati fascisti è la madre del romanzo, e spiega tanto di come vivevano e sentivano le cose i nostri compatrioti, nella prima metà del Novecento. Pennacchi ci racconta, con la dolcezza e la semplicità del cantastorie, quanto naturale e splendido fu il sacrificio degli emigrati settentrionali nell'Agro Pontino per animare quello che sulle prime apparve loro come un "tappeto di biliardo", "neanche più una goccia d'acqua, un filo d'erba"; Pennacchi ci ricorda, senza retorica e senza partigianerie, l'orgoglio della nascita delle città di fondazione; infine, ci accompagna nei giorni atroci e insanguinati della caduta del regime, confidando qualcosa che sui libri non s'è letto, a proposito della lealtà dei pontini. Questo romanzo è scritto per insegnare alle nuove generazioni cos'è stata la sofferenza della povera gente, in Italia, e cosa la grande illusione d'un loro riscatto. Infine, e soprattutto, è stato scritto per eternare la storia di una delle più grandi imprese italiane del Novecento. Quella della creazione della vita là dove altro non era che miseria, e morte. Memorabile.
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Il libro è innervato da robusti inserti in un dialetto, quello veneto-pontino, estraneo – chiosa l'autore, nella nota filologica in appendice – sia a Goldoni che al Veneto odierno. Perché "Il nostro è un impasto di rovigotto, ferrarese, trevigiano, friulano eccetera – contaminato da influenze laziali – privo di strutturazione grammaticale fissa, con le vocali ora aperte ora chiuse e le desinenze che cambiano da podere a podere e da situazione a situazione, anche spesso nello stesso parlante" (p. 457). L'impatto nella narrazione è fresco, vivace, scintillante e credibile.
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Le pagine più impressionanti sono quelle dedicate allo scenario dell'Agro Pontino, alla sua storia e agli aspetti antropologici e sociali del suo popolo. Entriamo nel vivo, campionando qualche passo. Per prima cosa, Pennacchi ci racconta che la bonifica moderna delle Paludi Pontine non è stata merito esclusivo del fascismo: ci aveva già pensato Filippo Turati assieme a Nitti, nel 1919, dopo la Grande Guerra. Il progetto naufragò trasformandosi in una miniera di corruzione, della serie "piglia i soldi e scappa" (cfr. pp. 48-49). In passato, avevano tentato l'impresa i Romani, "i papi e Leonardo da Vinci, Napoleone, Garibaldi; ma la palude aveva sempre vinto lei".
Le Paludi Pontine erano "un inferno che pochi anni prima arrivava dalle mura di Roma fino a Terracina; oltre settecento chilometri quadrati di pantani, stagni, foreste impenetrabili con serpenti di oltre due metri e stormi di zanzare anofeli che guai a chi ci entrava. Se non finivi nelle sabbia mobili t'attaccavano la malaria le zanzare, ed eri fatto" (p. 139).
Erano, insomma, "un insieme misto di stagni e terre sommerse con terre pure emerse ed estese, ma preda di foreste impenetrabili, forre, rovi, animali e spinaccia. E dentro le foreste e gli spinaceti altri stagni chiamati 'piscine', soprattutto sulla duna quaternaria perché ogni più piccolo avvallamento – costituito nei suoi strati superiori da argilla – una volta riempitosi d'acqua nei mesi invernali restava allagato e stagnante, putrido e marcescente fino a tutta l'estate" (p. 141).
Mussolini, convinto alfiere del ruralismo e della deurbanizzazione, sulle prime era contrario all'edificazione di città, da quelle parti. "Fuori dalle città, via in campagna: è questa la vera mistica fascista", diceva. E il fascio, chiosa Pennacchi, "la gente ce la teneva con la forza".
La gente, da quelle parti, camminava scalza – e così è stato fino all'arrivo del benessere, nel 1960: e scalza veniva sepolta, mantenendo vivo un vecchio rito del basso rovigotto (p. 187). Le cittadine erano piene di osterie, spesso col gioco delle bocce davanti, "e i nostri vecchi stavano sempre ubriachi" (p. 306). Il narratore di Pennacchi sospetta che i venticinquemila osti rimasti senza lavoro nel 1928, in tutta Italia, si siano trasferiti in blocco nell'Agro. È una provocazione intelligente.
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L'energia elettrica, ancora nel 1932, mancava: esisteva solo, assieme a telegrafo, telefono e fogne, nei borghi e nelle città. La luce, da quelle parti, si faceva col lume a petrolio o a carburo; per il pozzo c'era una pompa di ferro, fatta a forma di fascio, con le verghe attorno (p. 215).
Ancora una curiosità. Una delle tradizioni portate nel Lazio dai Veneti era quella del "filò"; ci si riuniva, tutti a sera, dopo cena, "ora in un podere ora in un altro a raccontarsi storie, fòle, favole e roba del genere, al lume di candela o di petrolio. D'inverno ci mettevamo in stalla, assieme alle bestie perché faceva più caldo. Lei doveva vedere la gente che si portava da casa la sedia o uno sgabello, per paura di restare in piedi. [...] D'estate invece in strada, seduti sulle spallette dei ponti" (p. 300). A questo rito s'aggiunse quello del ballo sull'aia, importato dai ferraresi.
Da leggere. È buona letteratura, è grande memoria.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Antonio Pennacchi (Latina, 1950 - Latina, 2021) scrittore e operaio italiano. Ha pubblicato il gran romanzo "Il fasciocomunista" nel 2003.
Antonio Pennacchi, “Canale Mussolini”, Mondadori, Milano 2010. In appendice, fonti consultate.
Gianfranco Franchi, "Lankelot". Aprile 2010.
Prima pubblicazione: FareFuturo Web Magazine, 27 aprile 2010 - © Fondazione FareFuturo. A ruota, Lankelot.
Antonio Pennacchi torna sul sentiero difficile e stupendo della pacificazione, della battaglia estetica e culturale per la memoria condivisa…