Bugiardi. La verità in maschera

Bugiardi. La verità in maschera Book Cover Bugiardi. La verità in maschera
Guido Almansi
Marsilio
1996
9788831764926

TOUCHSTONE: The first, the Retort Courteous; the second, the Quip Modest; the third, the Reply Churlish; the fourth, the Reproof Valiant; the fifth, the Countercheck Quarrelsome; the sixth, the Lie with Circumstance;the seventh, the Lie Direct” (William Shakespeare, As You Like It, v, 4, 92-96)

Questo splendido passo shakespeariano apre la digressione sui mentitori di Guido Almansi (1931-2001), professore di Letterature Comparate nell’Università di East Anglia, in Norwich, direttore di una collana di testi teatrali per la Marsilio, critico teatrale del settimanale Panorama. Autore di numerosi saggi, tra i quali “Il teatro del sonno” (Milano, Garzanti, 1988) e “L’estetica dell’osceno” (Torino, Einaudi, 1995) non ha mancato di evocare, alludere o trattare direttamente il tema della menzogna nel corso della sua attività letteraria. Tra le ultime opere pubblicate, “Bugiardi – La verità in maschera” merita d’essere menzionata per via dell’attinenza al tema di questa ricerca.

Il libro è suddiviso in cinque capitoli, dedicati rispettivamente, come spiegato nell’introduzione: 1, ai grandi “bugiardi teatrali”, definiti “paradigmatici” e appartenenti in genere alla letteratura teatrale del Seicento e del Settecento; 2, alla corrispondenza di Lewis Carroll, con particolare cura alle lettere spedite alle bambine amiche, in onore alla “retorica dello svantaggio” dell’autore dell’”Alice in Wonderland”; 3, allo stupendo inganno perpetrato da Ser Cepparello nella prima novella del “Decameron”, manipolazione perfetta d’un’esistenza dissoluta e lasciva, 4, alla produzione drammaturgica di Harold Pinter, che “ha fatto della bugia (della necessità esistenziale della bugia) il perno centrale del suo teatro e del suo rapporto con gli spettatori”, 5, Al paradosso del Marquis de Valmont nelle “Relazioni Pericolose” di Choderlos de Laclos, allorché giunge all’apoteosi della menzogna: mente “dicendo la verità” (pp. 9-13).

L’opera non manifesta né dichiara pretese di enciclopedismo o di sistematicità: è, secondo le parole dell’Almansi, una personalissima breve panoramica su alcuni bugiardi sintomatici. Nel corso del primo capitolo, prima di approdare ai “bugiardi teatrali”, l’autore si sofferma a discutere del ruolo della menzogna nella produzione omerica. “In Omero, e in buona parte del mondo classico, dove esisteva persino una concezione agonistica della bugia (…)il problema era ben diverso. La bugia faceva parte, a seconda della maggiore o minore intelligenza del bugiardo, dell’astuzia” (p. 16). L’esito del discorso è particolarmente evidente nella di poco successiva interpretazione dell’opera swiftiana: “La menzogna è consona alla natura umana, e vede nella falsa rappresentazione una differenza fondamentale tra l’uomo e l’animale” (p. 18).

Il discorso dell’Almansi sulla letteratura teatrale del Seicento e del Settecento esula dal mio studio, circoscritto, per quanto concerne la produzione di fiction, al Novecento: tuttavia, merita la trascrizione un frammento dedicato ai “segnali della menzogna” nel “Bugiardo” di Goldoni. “Tra tutti questi segnali, il più frequente e convincente è l’affermazione della sincerità, che abbonda nel 'Bugiardo'. Quanto più Lelio afferma la propria rigorosa sincerità, tanto più noi ci convinciamo del suo irresistibile penchant per la bugia” (p. 27).

Registriamo questo prodromo della menzogna come uno tra i sintomi più frequenti e pericolosi, meditando di associarlo alla parabola del “Liar” di Henry James, e prima di procedere, ricorderemo, ad esempio, che il “Tartuffo” di Molière non si comportava in maniera dissimile. Nel secondo capitolo, dedicato ad una porzione esigua dell’epistolario di Lewis Carroll, nelle primissime righe si attesta una interessante riflessione dell’Almansi sulla natura della corrispondenza: “Mandare una lettera a un corrispondente adulto significa immaginare una ipotetica lingua condivisa pienamente dal mittente e dal destinatario non solo nelle sue definizioni vocabolariesche e accezioni primarie, ma anche nei suoi significati secondari e reconditi fino ai recessi del privato, nelle aberrazioni delle sue catene analogiche e associative, nelle idiosincrasie dello stile e dei sentimenti (…)L’azione di scrivere è un atto di fiducia nella concordanza dei codici (linguistici, simbolici, comportamentistici, ecc.)” (pp. 29-30).

L’esito, scriverà più avanti, è prossimo a quello di un messaggio cifrato. Il discorso riveste un interesse tutt’altro che marginale: potremmo pertanto, assumendo le affermazioni dell’Almansi, ritenere che sia impossibile una comunicazione perfetta perfino per via scritta: c’è dunque qualcosa di contraddittorio, per così dire di “corrotto” rispetto alla fonte originaria, in ogni utilizzo della parola. Per ogni comunicazione, bisogna fare un atto di fede nella convergenza e nella concordanza dei codici: senza nessuna assicurazione in merito ad una pacifica e totale ricezione del senso originario d’un messaggio.

Vedremo altrove, nell’analisi del racconto borgesiano “L’altro” (ne “Il libro di sabbia”: pp. 15-18), che non potersi ingannare reciprocamente può rendere difficile un dialogo: il paradosso del doppelgaenger dimostra come la postulata “ipotetica lingua” dell’Almansi sia probabilmente inutile al fine di una “totale e perfetta” comunicazione tra esseri umani. Convinzione dominante sembra essere non solo la naturalezza, ma l’essenzialità, la basilare importanza della menzogna: in un dialogo dal vivo come in un dialogo epistolare, necessariamente si devono fondare le proprie argomentazioni sul velleitario tentativo di una condivisione dei significati e nella utopica possibilità d’una concordanza assoluta dei codici: in assenza di una Verità indiscutibile, ogni dialogo è un riflesso d’un artificio o d’un inganno. Allora l’inganno e l’artificio divengono strumenti d’un gioco: strumenti imprescindibili, parrebbe, dacché altrimenti l’esito di qualunque comunicazione diventa precario e incerto – o forse, ancor più precario e incerto della norma. Di questi inganni e artifici è composta la sostanza delle lettere spedite da Carroll: Almansi le definisce “paido-dirette” per via della loro capacità di aderire alla dimensione “infantile” del gioco della comunicazione: potremmo aggiungere che siano, oltre che “paido-dirette”, “pseudo-dirette”, nel senso che in più di una circostanza il reverendo Charles Dodgson di Christchurch College, Oxford, entrato nell’eternità col nome di Lewis Carroll, giocherà sull’ambiguità del significato e del senso quasi a suggerire che “le lettere vogliano essere infide, e debbano essere riconosciute come tali” (p. 33), come scrive l’Almansi. In sostanza, potremmo dedurre che la lettera spedita da Carroll ad una bambina sia un gioco che afferma di essere un gioco, e risulta difficile non essere blanditi dal non sense: la lettera stessa invita a non essere creduta, secondo una “retorica dello svantaggio cara all’autore” (p. 12), scrive l’Almansi prima di riportare qualche esempio chiarificatore: “Non è necessario che tu mi creda, non esser tanto pronta a prestar fede alla gente” – scrive Carroll a Mary MacDonald. “Non importa affatto come si inizia una lettera, né, a dire il vero, come si prosegue e nemmeno come si finisce” (p. 33) – in una lettera a Agnes Hull.

La retorica e lo stile contribuiscono, così, a indebolire la credibilità d’uno scritto: Almansi conclude sostenendo che l’arte dello scrivere non consista dunque nel convincere il lettore della verità di ciò che si scrive, ma nella sua irresistibile non-verità. A questo proposito potrebbe risultare pertinente richiamarci brevemente al quarto paragrafo della “Storia vera” di Luciano di Samòsata. Dopo aver discusso delle numerose menzogne raccontate in opere che si professavano veritiere, così riflette: “Quando lessi dunque tutti questi autori, non li biasimai troppo per il fatto che mentivano, vedendo che questa era ormai un’abitudine anche di quelli che si professavano filosofi, ma mi meravigliai di questo, che credevano che gli altri non si sarebbero accorti che essi scrivevano cose non vere. Perciò io stesso, spinto da vanagloria (…) mi sono volto alla menzogna, ma a un tipo di menzogna molto più onesto che quello degli altri. Giacché almeno in questo sarò veritiero, dicendo che mento. Così credo di sfuggire all’accusa che può venirmi dagli altri, riconoscendo io stesso di non dire nulla di vero. Scrivo dunque intorno a cose che non vidi né provai né appresi da altri, e inoltre di cose che non esistono affatto, e che non possono assolutamente esistere. Perciò occorre che i miei lettori non ci credano per nulla” (“Storia Vera”, IV).

Paradosso del mentitore: nel “Tractatus logico-philosophicus” Ludwig Wittgenstein affermava: “una proposizione non può enunciare, di se stessa, che è vera” (p. 37, prop. 4.442). Luciano è un illustre antecedente delle tecniche di “demistificazione della natura della scrittura” di Lewis Carroll, e delle successive analisi almansiane. Luciano racconta di un viaggio nei regni, potremmo dire, dell’utopia: pura letteratura, totale invenzione o alterazione della tradizione. Interessante l’antegoria del titolo dell’opera, arguta ironia nominarla “Storia vera”, quando è in realtà lo stesso autore a predicare menzogna. Notevole, va detto, che un autore del secondo secolo avesse assunto tale consapevolezza a proposito della natura delle opere letterarie.

Concludiamo la trattazione del volume dell’Almansi: nel terzo capitolo, dedicato alla novella boccaccesca di Ser Cepparello, rinveniamo una importante riflessione sulla letteratura. “(Il procedimento) letterario adopera come materia prima gli elementi del reale(e avremo così nelle novelle o favole o parabole o istorie: uomini e donne e case e campi e animali e alberi, vicende plausibili e avventure ipotizzabili e incontri e guerre e amore e rapine) e li trasforma in un tessuto di menzogne, in una raccolta di dati falsi, di informazioni inesatte, di fatti inesistenti, di personaggi fittizi, di episodi che non hanno avuto luogo compiuti da esseri umani che non sono mai esistiti in modi che non hanno necessariamente riscontro con la nostra esperienza […]. Il nostro senso estetico si nutre avidamente di queste menzogne […] sistematica e immorale deformazione di ciò che è vero” (p. 60).

Del resto, potremmo concludere con Cioran: “Soltanto le cose inerti non aggiungono nulla a ciò che sono: una pietra non mente, dunque non interessa a nessuno – mentre la vita inventa senza posa: la vita è il romanzo della materia” (dal “Sommario di decomposizione”)”. Almansi, così, riecheggia le posizioni manganelliane: i narratori sono costretti a mentire, in onore alle “punitive leggi delle lettere”, approfittando della verosimiglianza delle loro storie: nell’arte, qualsiasi pretesa di realismo, intesa in senso moderno, mi sembra non solo pregiudicata ma definitivamente condannata alla menzogna.

Tra le quattro “letture” sulla menzogna, sul travestimento della verità e sull’abuso del linguaggio contenute nel volume “Tra menzogna e ironia” di Umberto Eco è possibile estrapolare, nell’ambito del saggio “Il linguaggio mendace” in Manzoni, un interessante frammento: “C’è una semiosi naturale, esercitata quasi istintivamente dagli umili dotati di esperienza, per cui i vari aspetti della realtà, se interpretati con prudenza e conoscenza dei casi della vita, si presentano come sintomi, indici, signa o semeia nel senso classico del termine. E c’è la semiosi artificiale del linguaggio verbale il quale, o si rivela insufficiente a render conto della realtà, o viene usato esplicitamente e con malizia per mascherarla, quasi sempre a fini di potere. Ma questo è possibile perché il linguaggio è ingannevole per sua propria natura, mentre la semiosi naturale induce a errore e abbaglio solo quando è inquinata dal linguaggio che la ridice e interpreta, o l’interpretazione è ottenebrata dalle passioni”.

Ennesima attestazione del potenziale artificiale del linguaggio, e riprova ulteriore della sua innata incapacità a rappresentare o esprimere completamente e correttamente la realtà e della sua vocazione all’inganno o al mascheramento: e modesto atto di fede nella “semiosi naturale”, in nome della quale, teoreticamente, gli aspetti della realtà parlano agli umili in Manzoni come signa e semeia, salvo poi esser inevitabilmente corrotti al momento d’esser pronunciati, e logicamente dunque interpretati. Il linguaggio, definendo la realtà, naturalmente la travisa o la altera o la deforma: la letteratura è la consapevolezza della menzogna del linguaggio.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Guido Almansi (1931 – 2001) letterato italiano. Insegnò Letteratura Inglese nel Regno Unito, visse a lungo nel Canton Ticino. Scrisse saggi, poesie, un romanzo e una commedia.

Guido Almansi, “Bugiardi - La verità in maschera”, Marsilio, Venezia, 1996.

Gianfranco Franchi, agosto 2002.

Breve articolo tratto dalla tesi di laurea “La menzogna nella Letteratura del Novecento”. A ruota, apparso su Lankelot.