EDB
2016
9788810555538
Da quale epoca esiste la coscienza di un “io meteorologico”, sensibile alla pioggia, alla grandine, alla neve e al vento freddo? E come è mutato, nel corso del tempo, questo tipo di sensibilità? Cosa significa l'ossessione per i bollettini meteorologici? Da quando, all'incirca, la nostra società ha cominciato a nutrirsi quotidianamente di previsioni del tempo, e cosa significa? E che cosa ne è, oggi, delle antiche credenze nell'intervento divino, e come la loro sostanziale sparizione ha modificato le angosce o le sofferenze dovute all'assenza della pioggia? A queste domande risponde il singolare e poco ortodosso saggio breve “Breve storia della pioggia. Dalle invocazioni religiose alle previsioni meteo” [EDB 2016, euro 9, pp. 64; trad V. Riguzzi] dello storico francese Alain Corbin, classe 1936, studioso di storia sociale, tra i pionieri della “storia della sensibilità”. Originariamente apparso a Parigi, nel 2013, col titolo “Sous la pluie”, in positio princeps, nella miscellanea “La pluie, le soleil et le vent. Une histoire de la sensibilité au temps qu'il fait”, curata sempre da Corbin, questo pamphlet è una fascinosa e sintetica panoramica che finisce per costringere il lettore a interrogarsi a fondo su un aspetto diventato, con apparente neutralità, sostanzialmente onnipresente nei media della nostra epoca, vale a dire il periodico e nevrotico aggiornamento delle previsioni del tempo. Se, credo pacificamente, si può constatare che l'eccessiva ripetizione dei bollettini meteo esprime e rappresenta un sostanziale miglioramento delle nostre tecnologie e della loro credibilità, dall'altro, forse inevitabilmente, essa costituisce una nuova testimonianza dell'eccessiva considerazione che andiamo riponendo nelle nostre capacità di prevedere, intercettare e arginare ogni cambiamento del nostro pianeta, come se fossimo in grado di dominarlo e alterarlo a menadito, come se fosse una nostra creazione di cui stiamo, paradossalmente, ancora imparando le regole e il perfetto funzionamento.
Il professor Alain Corbin ha individuato nel XVIII secolo il momento storico in cui è andata intensificandosi, fino all'odierno parossismo, la sensibilità per i fenomeni meteorologici, in parallelo con la retorica sui suoi effetti: è già nel 1784, ad esempio, che Bernardin de Saint-Pierre, nei suoi “Ètudes sur la nature”, andava sottolineando il piacere della pioggia, madre della malinconia; e anzi osservava che per potersi gustare più a fondo la pioggia serviva non avere niente in agenda, e smettere di pensare che non c'erano più le stagioni o le mezze stagioni e non c'era più l'antico ordine nella natura. Serviva ricordare l'esempio di quel console romano, eternato da Plinio, che quando pioveva faceva alzare la sua lettiga sotto le fitte frasche d'un albero, per addormentarsi al mormorio delle gocce di pioggia.
Joseph Joubert, nel suo “Carnet” (1779-1783), osservava che la pioggia sapeva rendere le percezioni più nitide e più definite: più sensibili ai rumori, alle sfumature di colore, alle impressioni, in genere. Il pittore Pierre Henri Valenciennes, nello stesso periodo, esortava i suoi allievi ad aspettare un'ora, dopo un'acquazzone, per apprezzare la lucentezza della natura (e i colori più vivaci delle foglie e dell'erba, e il canto più allegro degli uccelli). Il filosofo Thoreau, d'antica ascendenza stoica, adorava la pioggia: in “Walden” ricordava che “se va bene per l'erba, va bene anche per me”.
Altrove, il suo collega Maine de Biran, nel suo diario del febbraio 1819, registrava quanti danni e quanto malessere gli veniva dalla pioggia: addirittura doveva ammettere che “lo stomaco è come affossato su se stesso, le digestioni sono laboriose, le idee lente e oscure; il mondo scompare ai miei occhi”. Invece, la marchesa Madame Sévigné, pur deplorando la tristezza spaventosa e il fango che rallentava le carrozze, riconosceva che a certi livelli la pioggia poteva avere ben diverso impatto: una pioggia eccezionale poteva essere il viatico a una festa tra amici. “Le foglie si infradiciano in un attimo, e così i nostri vestiti. E poi ecco che tutti corriamo. Si grida, si cade, si scivola, infine alè, accendiamo un grande fuoco. Ci cambiamo sopra e sotto; penso a tutto io. Mettiamo le scarpe ad asciugare. Ridiamo da morire”. Corbin non può saperlo, ma questo scenario panico sarebbe piaciuto al nostro poeta delle tamerici.
Nel Novecento, Gide, nel suo “Journal”, ribadiva la sua avversione per la pioggia, che figliava volontà inquieta e umore instabile e magari cefalea; cent'anni prima Baudelaire aveva riconosciuto nella pioggia una componente fondamentale dello spleen, e Verlaine aveva stabilito un legame incontrovertibile tra pioggia e malinconia. Laforgue, non troppo lontano dai loro esempi, sapeva sfregiare il maltempo così: “Tutto mi annoia, oggi. Scosto le tende. / In alto un cielo grigio, rigato da un'eterna pioggia”. E via.
Corbin dedica poi diverse pagine di qualche interesse all'uso politico francese della pioggia, ormai tradizionale, e alle potenzialità di un'esperienza condivisa dal popolo e dai regnanti (e poi dagli amministratori, in genere), sin da quando s'era capito che le intemperie non potevano frenare l'entusiasmo rivoluzionario, anzi potevano esasperarlo, al limite. Sul fronte religioso, non può non strappare un fraterno sorriso di comprensione, di allegria e di vicinanza l'eredità pagana nel culto dei santi: nelle campagne francesi, accanto ai santi guaritori c'erano (e forse ci sono ancora...) i santi “pluvi”, quelli che portavano la pioggia e il bel tempo: il più famoso era san Medardo, secondo la vulgata un ex mercante di ombrelli. Quando non pioveva da troppo tempo, i contadini pregavano “Saint Médard”, detto anche, opportunamente, “Saint Pissard”.
Corbin non vuole approfondire la questione più affascinante, e cioè che cosa ne sia oggi delle vecchie credenze e dei vecchi comportamenti legati alla pioggia: ritiene che sia una questione antropologica, più che storica. Come storico, invece, preferisce semplicemente registrare il “progressivo discredito dell'intervento divino” e la radicale modifica delle modalità dell'attesa della pioggia, dopo il perfezionamento scientifico delle previsioni del tempo. A Corbin preme farci notare che “questi nuovi dati hanno annullato l'effetto della sorpresa e soprattutto hanno squalificato i saperi degli uomini di altri tempi, che con lo sguardo, l'umidità percepita dal corpo o il vento sulla pelle e tante altre sensazioni prevedevano l'irruzione o meno della pioggia” [p. 50]. Le ansie e le sofferenze legate alla pioggia, o all'assenza della pioggia, sono davvero clamorosamente cambiate, nel tempo, assumendo, in certi frangenti, aspetti ossessivi che andrebbero analizzati in contesto psichiatrico. Per quanto riguarda infine il drammatico problema delle piogge acide, per Corbin è troppo presto per decifrare o almeno valutare la loro influenza e la loro incidenza sull'immaginario collettivo. Ho la sensazione, però, che molto presto ci troveremo ad affrontare la questione (e questa è una previsione facile).
Devo riconoscere che l'argomento di questo saggio breve è tra i più insoliti e i più intelligenti che mi siano passati per la scrivania nel corso degli ultimi anni; ho avuto la sensazione, però, che la scrittura nervosa e ultracitazionista di Corbin fosse più simile a una scrittura da block-notes o da taccuino che altro: peccato, perché con un diverso respiro, più lento e armonioso, stavolta ci si poteva azzardare a dire che questo era un libro fondamentale. Invece è un seme che ha qualcosa di particolarmente promettente e nutriente; è un indiscutibile punto di partenza per un saggista con diversa classe e diversa calma interiore, intenzionato a scandagliare i meandri dell'anima umana, e i labirinti della nostra intelligenza, e il mistero divino e arcano della creazione e del creato, con prometeico coraggio.
Gianfranco Franchi, novembre 2016
Da quale epoca esiste la coscienza di un “io meteorologico”, sensibile alla pioggia, alla grandine, alla neve e al vento freddo? E come è mutato, nel corso del tempo, questo tipo di sensibilità? Cosa significa l’ossessione per i bollettini meteorologici? Da quando, all’incirca, la nostra società ha cominciato a nutrirsi quotidianamente di previsioni del tempo, e cosa significa?