Vallecchi
1961
9788884270740
“L'italiano non ha paura / della legge di natura / e talvolta, anzi, corregge / la natura della legge” (“Benedetti italiani”, p. 153): dimenticate l'orgoglio patriottico localissimo dei “Maledetti toscani”, dimenticate quanta ostilità e quanto sarcasmo si nascondeva in quelle righe nei confronti di tutti quei cittadini che non fossero toscani; dimenticatelo, ché Malaparte ha giocato un'altra volta al gioco del contraddittorio, all'amplificazione parossistica della doppiezza, al gusto di avere stile nell'essere prima guelfo e poi ghibelllino. Non sappiamo quanto in fondo volesse andare: il libro è stato assemblato quattro anni dopo la morte dell'artista, nel 1961, e manca quindi di supervisione autoriale (integrazioni, omissioni, modifiche: chissà cosa ci siamo persi). Tuttavia, pure incompiuto e forgiato a posteriori com'è, “Benedetti italiani” riesce nell'impresa di intrattenere, divertire e stuzzicare, quasi fosse un'opera finita e rifinita più volte nel tempo. Questo è un talento.
“L'Italia è cosa della natura, un frutto della natura, e gli uomini che nascono da lei sono cose della natura anch'essi, sono i frutti di questa fronda, sono animali bellissimi” - cantava Curzio, spiegando che chi ha voluto trarre principii o regole morali dalla nostra storia, come Montaigne e Montesquieu, ha sbagliato perché non si possono trarre regole morali dalla storia della natura. E che da queste parti, a ben guardare, la natura è uno specchio del nostro carattere.
Malaparte scriveva che gli italiani sono vanitosi, d'una singolare vanità: “si nutre più dei complimenti che delle giuste lodi”. Scrive subito che siamo il popolo più diffamato al mondo: e ritiene d'aver capito perché. Sentiamo.
“La ragione vera non è, come dicono, che siamo traditori, falsi, vili, bugiardi, sporchi, e ladri, poiché non so quale popolo, anche il più superbo, il più ricco, il più rispettabile, non sia traditore, falso, vile, bugiardo, sporco e ladro: la ragione è che gli italiani sono stati per molti secoli, ora per la forza delle armi, ora per la ricchezza, ora per l'intelligenza, per la civiltà, per l'arte, i padroni di tutti i popoli della terra, e poi, per molti secoli, i servi di tutti i popoli” (p. 16).
Insomma: diffamazione e disprezzo figlie dell'invidia mai spenta, del rancore non sopito, dell'antica paura. Siamo dalle parti dell'agiografia degli italiani? Scordatevelo. Guerri ci conforta: “Se Malaparte non rinuncia a professare il suo particolare sciovinismo, lo fa non per cantare primati inattuali, residui revanscisti di un'epoca che non c'è più, né supremazie culturali, ma per descrivere e rivendicare anche per sé 'quel che di miserabile e di splendido, quel che di vile e di grande, v'è nel nostro carattere di nazione, e perciò nel nostro destino di nazione'” (Prefazione, pp. 6-7). Tutto qui, a ben guardare: e non è poco, e non sempre è pacifico o condiviso.
Avanziamo. Siamo un popolo di furbi? “Non mi sembra sia un difetto, e vana mi par l'accusa di furbizia che gli stranieri ci van muovendo da secoli. E prima di tutto non vedo per qual ragione gli italiani dovrebbero essere coglioni. E poi: per far piacere a chi? 'Meglio pazzi che grulli', dicono in Toscana; e io aggiungo: meglio furbi che coglioni” (p. 43). Alè.
Ci accusano d'essere eccessivamente gestuali. Ci accusano di “parlare con le mani”. Curzio, dì qualcosa. “O con che cosa vorrebbero che si parlasse? Ci han fatto star secoli e secoli a bocca chiusa, con le mele strette, e guai a chi apriva bocca, fosse pure soltanto per rifiatare, e poi si lamentano se parliamo con le mani?” (p. 67). Non fa una piega.
Malaparte non lesina omaggi, regione per regione, città per città, mostrando grande amore per i piemontesi, per la loro classe e per la loro nascosta ma profondissima italianità (gran bevitori, gran mangiatori...). Ecco i veneti, che vivono nel paese della gentilezza, il solo paese che sa sorridere fra le lacrime; ecco i liguri, unici italiani che diffidano di tutti quelli che stanno al mondo, e in questa diffidenza son sinceri; ecco i napoletani, natura accesa e violenta che subito si muta nel senso d'una vita profonda e felice; ecco la Toscana antica, “padre e padrone di Roma” sotto l'egida etrusca, ecco gli Umbri matti, d'una pazzia che qualcuno crede misticismo; ecco i romani, con quell'indolenza che altro non è che segno d'orgoglio: “camminano a testa alta, parlano con voce forte, ti guardano dritto negli occhi (…). Li ho visti morire con calma sprezzante e orgogliosa, con una flemma antica e nobile. Parevano statue dissepolte” (p. 161). E quel che dice dei romani, mi piace ribadirlo, è proprio magnifico. Milano non gliene voglia, ma di lei praticamente non si parla.
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Quanto alla genesi dell'opera, pubblicata postuma nel 1961, Guerri spiega che quando il curatore Enrico Falqui raccolse e pubblicò questi scritti, “non resistette alla tentazione di mettere le mani avanti. Si trattava, ammoniva il famoso critico letterario, di pagine e capitoli in buona parte inediti, di fogli senza datazione assemblati senza precisi dettati dell'autore, morto già da quattro anni. (…). In realtà peccava di eccesso di zelo. E non solo perché Malaparte aveva già espresso la volontà di scriverlo, quel libro, ma anche e soprattutto perché i significativi frammenti che possiamo ora rileggere rappresentano la coerente e nient'affatto occasionale continuazione degli spunti e delle riflessioni presenti in 'Maledetti toscani'” (p. 5).
Sì, leggeteli entrambi: comprateli e studiateli in coppia. Vi sarà più chiaro come sia possibile per Malaparte esser stato fascista e antifascista, comunista e anticomunista, toscano e arcitaliano. Malaparte è il nostro Giano.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Kurt Erich Suckert (Prato, 1898 - Roma, 1957), alias Curzio Malaparte, scrittore, giornalista e diplomatico italiano.
Curzio Malaparte, “Benedetti italiani”, Vallecchi, Firenze 2003. Prefazione di Giordano Bruno Guerri. Collana “Caratteri del Novecento”.
Prima edizione: 1961, a cura di Benedetto Falqui.
Approfondimento in rete: WIKI it
Gianfranco Franchi, marzo 2010
Prima pubblicazione: Lankelot.
“L’italiano non ha paura / della legge di natura / e talvolta, anzi, corregge / la natura della legge”…