Jaca Book
2012
9788816530041
IL PROCURATORE (fa una pausa. Rilegge di nuovo la piastra di Sahak): “Christos Iesus”… - Sì, credo di averne sentito parlare…Non è il dio degli schiavi? Quello che deve liberare tutti gli oppressi e sciogliere tutte le catene?
SAHAK: Sì. È lui.
IL PROCURATORE: “Sciogliere tutte le catene”…Una dottrina singolare. E forse non del tutto innocua… - Se rinneghi la tua fede non ti accadrà niente di male. Vuoi?
SAHAK: Non posso.
IL PROCURATORE: Perché no?
SAHAK: Non posso rinnegare il mio Dio.
IL PROCURATORE: Strano uomo…Devi pur essere in grado di capire a quale pena mi costringi a condannarti. Hai davvero tanto coraggio da poter morire per la tua fede?
SAHAK (piano): Non lo decido io.
(Atto Secondo. Terza Scena, pp. 81-82)
Il dramma di un uomo che viene graziato perché siano adempiute le scritture: e perché il Figlio dell’Uomo possa, come era stato stabilito, sacrificare la sua esistenza per redimere la colpa e i limiti dell’umanità. Barabba ha la stessa fondamentale importanza di Giuda: la sua esistenza significa la dannazione e l’elezione d’essere parte d’un altro, e divino disegno – non volontà, né scelta: ma naturale, e inevitabile adesione a un progetto che non si può che assecondare. Dunque essere non solo testimoni, ma responsabili e protagonisti della morte del Messia: senza aver sognato di pretendere mai una sorte così grande, senza aver mai paventato un destino lordato da una colpa impronunciabile.
Barabba e Giuda sono marionette nelle mani di Dio: simbolo della miseria d’una specie che – in circostanze come questa – deve rinunciare ad ogni ambizione prometeica od orfica: e consegnarsi alla Scrittura, testimoniando – con la propria vita – l’esistenza d’un sentiero dello Spirito che è inciso nel codice genetico dell’umanità, e pretende d’essere incarnato, di realizzarsi, a dispetto della volontà, dell’ambizione del libero arbitrio, della vagheggiata grazia.
Barabba è un farabutto: e non ha altro senso o altro futuro che non sia quello della violazione delle leggi degli uomini, della prevaricazione e della violenza. Questo fin quando non viene consegnato ai tutori e agli ermeneuti della legge degli uomini: nel momento in cui Dio ha decretato che non abbia altra evoluzione che non sia quella che ha immaginato, sin dal principio del nostro tempo. E allora il ladro e il criminale comprende – soffrendo – d’esser stato previsto, e intuisce quanto fittizia e pilotata sia stata la sua vita; qualcosa di neppure immaginabile – una volontà suprema e irremovibile – sembra abbia deciso ogni frangente d’un’esistenza che si voleva ai margini, laterale e aggressiva – da saprofita, e da profittatore al contempo. E nulla più ha un senso di fronte ai prodigi e ai miracoli dell’avvento del Salvatore: del liberatore non più, e non solo umano; dell’incarnazione del Verbo, avvento del Vangelo dell’Amore.
“Amatevi l’un l’altro” era il senso della sua epifania, e della sua incarnazione: la resurrezione della carne il destino di chi avrebbe affidato la sua anima all’unico Dio. Barabba era un uomo abituato a vivere tra delinquenza e menzogna; compagno delle prostitute, e degli assassini. Una foglia che sarebbe caduta in terra senza neppure aver coscienza d’esser vissuto: avido di infamia ed estraneo all’etica, come tanti uomini prima e dopo di lui. Quindi, la crocifissione d’un innocente acceca: allucinato dal martirio, Barabba s’accorge che s’è instillato il dubbio nella sua anima. Cosa davvero è avvenuto? E cosa avrebbe potuto cambiare e decidere – come avrebbe potuto incidere – se solo non fosse stato strumento nelle mani di Dio?
L’opera nasce come romanzo, nel 1950: la stesura scenica del testo come “dramma in due atti” risale al 1953. Scrive, a questo proposito, Perrelli nella postfazione: “Lagerkvist realizza una diligente drammatizzazione del racconto, addirittura con trapassi di integrali blocchi di dialogo, ma anche con necessari rabberciamenti di trama e soprattutto con un’inevitabile sintesi delle speculazioni, più spirituali che psicologiche, sull’intima essenza del cristianesimo, che costituiscono poi la parte più sentita e alta della narrazione” (p. 102).
Il romanzo avrà due traduzioni cinematografiche: una svedese, del 1953, diretta da Alf Sjöberg, una del 1962, per la regia di Richard Fleischer, con Anthony Quinn e Vittorio Gassman.
Barabba è un uomo sulla trentina. Terreo, ma forte. Dapprincipio non parla, e non guarda nessuno. Gli antichi compagni sanno che egli persegue delle vie che nessuno conosce (p. 14), e che si cura soltanto di se stesso. Ignora, apparentemente, chi sia stato crocifisso al suo posto. Ne parla ai compagni. Sembra scosso. Beve. Domanda cosa abbiano compreso dell’eclisse avvenuta sul Golgota, nel momento della morte di quell’uomo. Nessuno può rispondere, nessuno sa rispondere. Ha la visione del martirio, cui ha assistito. L’esperienza è irrimediabilmente impressa nella sua anima.
La sorte del bandito è segnata. Gli amici di Barabba festeggiano la sua liberazione. Lui è impassibile. La liberazione ha un significato differente da quel che credono. Una donna dice che chi è stato condannato a morte è come se fosse morto, nonostante l’amnistia. Ma la morte in vita di Barabba è domanda senza risposta a proposito della natura dell’uomo che ha sacrificato la sua esistenza per lui: innocente, e puro. Che fosse scriba, profeta, taumaturgo nessuno è in grado di spiegarlo – almeno, non tra i suoi compagni.
Barabba incontrerà Pietro, e Lazzaro. Pietro si rivelerà dopo aver discusso della crocifissione, della natura del Messia rinnegato dagli uomini, del suo tradimento. Lazzaro testimonierà il miracolo del Figlio di Dio, e l’essenza del regno dei morti: il niente. La morte è il nulla. Barabba non sa dove andare. Non può rifiutare il Vangelo – ne è stato partecipe e martire. Fede pretende sacrificio della sua esistenza: disegno divino intende la sua vita come strumento della resurrezione del figlio di Dio. Quale salvezza per chi ha incarnato l’indifferenza dell’umanità di fronte all’incarnazione del Verbo?
Cipro, miniere di rame. Barabba e Sahak, incatenati, lavorano col piccone alla roccia. Barabba è ingrigito, smagrito e ha lo sguardo inespressivo. Sahak parla per testimoniare l’avvento di colui che è. Ha un segno di riconoscimento e non teme la morte. La fede in chi ha promesso la liberazione dell’umanità dal giogo del male, della corruzione e della sofferenza è un roveto ardente e inestinguibile. Il Verbo s’incarna per rivelare il destino.
Barabba nasce per consentire al Verbo d’essere – e la sua natura malvagia, e la sua indifferenza alla giustizia e all’amore, sono previste e predeterminate. Uomo strumento di Dio: eletto e dannato. Imperfetto: compiuto.
**
IL VECCHIO: Quest’uomo è un infelice, e non abbiamo alcun diritto di giudicarlo. Noi stessi siamo pieni di colpe e di errori, e che il Signore abbia misericordia di noi non è merito nostro. Non abbiamo alcun diritto di giudicare un uomo perché non ha un Dio.
TUTTI si calmano e abbassano lo sguardo. Poi si allontanano in silenzio, tornando ai posti dov’erano seduti prima.
IL VECCHIO (una volta rimasti soli): È strano che dovessimo incontrarci così. E che alla fine dovessimo condividere lo stesso destino. Ricordo che avevamo parlato del lago di Genezaret. Non è vero?
BARABBA: Sì. Dicevi che ne avevi nostalgia.
IL VECCHIO: È così, ho nostalgia. (Guarda davanti a sé, come se vedesse in lontananza). Avrei voluto morire là e non qui, in questa grande città straniera. È strano che abbiamo dovuto allontanarci tanto da casa per seguire Dio. Ma è così. È così.
Si alza. Torna a sedersi al posto di prima, in mezzo agli altri. La sua grande testa bianca emerge sopra a tutte, il suo vecchio volto è rugoso e incavato ma irradia una grande pace. Barabba rimane solo. (Atto Secondo. Quinta Scena, p. 94)
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Pär Fabian Lagerkvist (Växjö, Svezia 1891 – Stoccolma 1974), poeta, drammaturgo e romanziere svedese. Premio Nobel 1951.
Pär Lagerkvist, “Barabba”, Iperborea, Milano 2004. Traduzione e cura di Franco Perrelli.
Prima edizione: “Barabbas”, Albert Bonniers Förlag AB, Stoccolma 1953.
L’opera debuttò al Dramaten di Stoccolma nel 1953, per la regia di Olof Molander.
Gianfranco Franchi, luglio 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.