Il Foglio Letterario
2010
9788876062270
“Sferragliando verso Sud suona proprio bene e rende al meglio l'idea di questi viaggi programmati dalla solita improvvisazione e compiuti su treni a dire poco in disarmo su lunghi ferrosi e arrugginiti binari, verosimilmente lunghi come tutta questa inverosimile nazione e attraversati da infinite genti che vorrebbero solamente e semplicemente essere altrove” (Izzo, “Balla Juary. Sferragliando verso Sud”, p. 21).
Il secondo romanzo di Fabio Izzo, narratore classe 1977, è una fotografia spaventosa e triste dello sradicamento di un giovane meridionale, della sua sensazione d'estraneità acquisita sia nei confronti del Settentrione che nei confronti del Meridione; è uno spaccato della sofferenza, sempre più cupa e vuota di speranza, della generazione nata negli anni Settanta, testimone incolpevole dell'autodistruzione d'uno Stato, cominciata dalla cancellazione dei diritti dei lavoratori, e dalla sparizione dei posti di lavoro.
Assieme, “Balla Juary. Sferragliando verso Sud” (Il Foglio, 2009) è una fedele rappresentazione di ciò che rimane a unire e forgiare la cultura di questo paese, in caduta libera e non da ieri: il calcio. Il narratore, dopo aver mandato a picco un colloquio a Milano (la mamma lo aspetta in sala d'attesa. Anche), si fa venire in mente la leggendaria e un po' kitsch danza di un calciatore dell'Avellino degli anni Ottanta, Juary, famoso per le esultanze pittoresche e danzerecce. Qua e là, raccontando del suo legame con la famiglia irpina, legge ogni personaggio tramite la sua fede calcistica; quando verde-Avellino, quando azzurra-Napoli, quando giallorossa-Roma. C'è una piacevole e famigliare sensazione di distacco e di distanza rispetto allo strapotere delle tre grandi squadre settentrionali, Juve Inter e Milan, che vanno a costituire l'allegoria d'una parte della nazione ormai irraggiungibile, forse invivibile, non più aperta ad accogliere e alimentare cittadini meridionali costretti all'emigrazione.
“Sentivo mie le parole di John Fante, dago, mangiaspaghetti, wop, ma le sentivo mie non in Colorado, le sentivo mie qui in una nazione che sembrava non essere per nulla destinata a me. Ero senza radici, non vedevo Torino o Milano, non guardavo verso la Mole o il Duomo come tutti gli altri. Ero proprio e davvero senza speranza, senza difesa, almeno fino a quando non arrivò quell'omino magico. Erano gli anni Ottanta. Gli anni di Diego Armando Maradona” (pp. 48-49). In quegli anni, per un meridionale tifare Napoli significava sentire casa vicina, sentirsi riscattato proprio sul pregiato territorio comune – l'unico – di tutti i suoi compatrioti; Maradona era quello che stava cambiando gli equilibri tra Nord e Sud, regalando il sogno di due scudetti al Napoli. Crescere con quell'esempio, non è un paradosso, significava crescere con il sogno del cambiamento: del cambiamento possibile, del miglioramento quasi scontato delle proprie condizioni.
Invece il narratore di Izzo, un attore di teatro che non sa più dove sbattere la testa, e intanto tira a campare magari seducendo una segretaria irpina, emigrata come lui e pronta a tutto pur di sopravvivere a Milano, sembra non aver avuto le chance annunciate dagli anni dell'Avellino in Serie A, delle danze dell'outsider Juary attorno alla bandierina del calcio d'angolo, né i cambiamenti spettacolari promessi e annunciati dalle imprese del pibe de oro. E così non sa più dove andare, né ricorda a chi appartiene; se a quel Nord dove è nato o a quel Sud dal quale proviene, almeno come cultura e storia famigliare. Sembra uno che sta aspettando, e non sa più nemmeno bene cosa. Intanto sprofonda nel pessimismo: “Gli uomini recitano per andare avanti e segretamente scrivono quel che non si può dire. Non c'è nessuno che apre la sua bocca alla verità. Nessuno disposto a concedere un'opportunità granitica quanto sincera. Avranno da fare ma non da recepire. L'umanità, mi vien da pensare, è una putrida macchia mai sbiancata del mondo animale. E tra tutti gli uomini quello bianco è quello meno smacchiato” (p. 63)
E più che mostrargli solidarietà, perché la sua storia non è nuova e non è rara, davvero non si può. “Balla Juary” conferma tutta una serie di problematiche della mia generazione che non sembrano poter essere risolte, né sconfitte. La sparizione della coincidenza tra identità e ruolo non sarebbe un problema, se almeno decine di ruoli diversi fossero disponibili, e pronti a essere giocati. Il guasto è che di alternative non se ne vedono, non qui in Italia, e prospettive nemmeno. Siamo stati viziati da un boom economico senza precedenti, ed eravamo bambini quando tutto sembrava andare per il verso giusto; l'Italia era una delle più grandi potenze industriali del mondo. L'avvenire era una sicurezza. Sembrano passati due secoli. O impariamo a capire che quel benessere e quelle comodità non torneranno mai più, se non per una minoranza assoluta di noi (no invidie, per carità), e accettiamo umilmente di chiudere nel cassetto (a chiave) le nostre lauree in attesa che tornino a essere richieste, oppure sono guai seri. Quei treni che Izzo descrive saranno sempre più malridotti, e la nostalgia per i sogni d'adolescenza brucerà ancora di più. Il meridione ormai include anche Roma. Non è un bel segno. Balliamoci sopra, come Juary. Almeno una risata possiamo strapparla. Certo, è un po' poco. Ma è qualcosa.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Fabio Izzo (Acqui Terme, 1977), scrittore italiano. Laureato in Lingue e Letterature Straniere a Genova, ha vissuto in Finlandia e in Polonia. Ha esordito con “Eco a perdere” (2006).
Fabio Izzo, “Balla Juary. Sferragliando verso Sud”, Il Foglio, Piombino 2009. Prefazione di Gianluca Morozzi.
Gianfranco Franchi, Aprile 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Il secondo romanzo di Fabio Izzo, narratore classe 1977, è una fotografia spaventosa e triste dello sradicamento di un giovane meridionale…