Alluminio

Alluminio Book Cover Alluminio
Luigi Cojazzi
Hacca
2007
9788889920114

Alluminio” (Hacca, 2007) è un romanzo esistenziale, politico e allegorico, ambientato negli anni dei regimi militari tra Cile e Argentina. È un libro capace di comunicare su diversi livelli: da un lato è metafora dell’abbandono al dolore, della pretesa di guadagnare la sconfitta pur di resistere al demone del ritorno; dall’altro è canto dell’umanità torturata e massacrata dalle dittature, e della sua renitenza all’obbedienza, all’inquadramento e alla prevedibilità – è, in altre parole, la voce della sua identità lacerata dall’assenza d’un ruolo degno, e dalla consapevolezza dell’ingiusta e atroce caducità della vita sotto regime: è la sua coscienza dell’irrimediabilità della situazione.

È l’allegoria della paura figlia d’un dolore che sovrasta e domanda solo d’abbandonarsi: è il magnifico suicidio senza spettatore di chi salta nel vuoto disegnando figure stupende che nessuno potrà vedere. Fiutando quell’odore che non richiama niente di diverso da alluminio e acido. L’odore della paura.

Questo è il memorabile esordio d’un giovane letterato italiano, il traduttore, viaggiatore e redattore Luigi Cojazzi, classe 1976. Strutturato in quattro parti (“Forme”), intervallate da interludi esistenziali, gioca su una scrittura visiva, densa e potente. Estranea, e non è un paradosso: chi nomina il nemico sa dominarlo, e domarlo – alla paura. Così:

Un mondo abbandonato dagli dèi in fuga – ma che in quella fuga ci hanno lasciato il peso insopportabile della promessa del loro ritorno. È questa la radice del male – mi dico. Abbiamo venduto la nostra storia alla promessa del ritorno. In ogni nostra attesa, nella vanità di ogni speranza, riviviamo questo desiderio originario. Il sogno che torni ciò che non c’è più” (p. 71).

Ancora:

La speranza che il passato possa tornare è in fondo la speranza che il tempo non sia mai esistito. Che i nostri gesti sbagliati possano essere redenti. Che le occasioni sfumate possano venire un giorno riscattate. Che il divenire non ci abbia davvero costantemente punito, consumato, deluso, e che alla fine della storia possiamo finalmente ricongiungerci con ciò da cui il tempo ci ha separato. La promessa del ritorno è un desiderio di vendetta contro il tempo – il tempo che sempre ci ricorda la nostra inconsistenza. Nel nostro orecchio ferito, come una sirena la promessa sussurra: quando l’epoca degli dèi tornerà, saremo finalmente pronti ad accoglierli” (p. 104).

Strutturato in quattro parti, dicevo. Forma dell’abbandono, forma della mancanza, forma dell’amore, forma del ritorno. Tutto ha inizio in Cile. Sono gli anni nei quali i teatri non possono più programmare Brecht e Sartre. L’arte è tornata a essere pericolosa. L’intelligenza è nemica dei regimi. Il generale ha tradito la fiducia del presidente, dopo averla ribadita soltanto venti giorni prima del golpe. Cinema e teatri adesso sono chiusi, la stampa è controllata dagli organi di propaganda dello Stato. Lo stadio dei Mondiali è diventato campo di prigionia. Là fucilano i dissidenti. Senza processo, senza pietà. Nelle scuole, i militari insegnano al posto dei professori. Gli orrori più atroci accadono alla periferia di Santiago, ai piedi delle Ande: Villa Grimaldi ospiterà circa 4500 detenuti. Torturati. 226 non usciranno mai di lì.

Dani, l’io narrante del romanzo, si presenta parlando della paura. Della sua condizione di nomade per necessità, esule dal suo Cile, bambino cresciuto senza padre – un’ombra – e presto senza madre: maestra e operaia forte e orgogliosa, morta subito dopo l’avvento al potere del Nemico. Bambino e ragazzo allevato dal fratello maggiore, Manuel. Scomparso a Santiago, a un tratto: lasciandolo solo. Dani ha difficoltà a scrivere “noi”: perché sa che “noi” richiede condivisione del passato e intuizione d’un futuro condiviso. “Noi” significa soltanto “noi che ce ne siamo andati”, nel presente della narrazione. Noi ombre, che calpestiamo la terra in attesa dell’impossibile riconquista dell’origine, del passato. Dani lotta per se stesso, dopo gli anni dell’orfanotrofio che sembra riformatorio, e della fuga in Argentina: per non scomparire (p. 42).

È clandestino, lavora in fabbrica. Sull’Argentina stanno per piombare i falchi d’un regime omicida. Dani non s’arrende all’idea che suo fratello sia sparito. Intellettuale e operaio, Manuel sognava di diventare meccanico di Formula 1, in un mondo democratico. Il destino è stato maligno. Allora cresce Dani leggendogli la storia della fondazione di Macondo, e dandogli l’esempio della resistenza attiva alle violenze dell’esercito contro i cittadini, nelle baraccopoli. Con educazione, e a mani nude: con la sola voce, con la sola opposizione del suo corpo a un ordine del nemico. Un giorno non torna più a casa. Succede così.

Ogni sera Dani gioca a calcio con i suoi compagni operai, su campetti sterrati. Quelle partite sono una danza, la coreografia della gioiosa sconfitta – una dichiarazione d’identità, testimonianza d’esistenza, rivendicazione etica ed estetica. La propaganda del nuovo regime argentino sta gonfiando i Mondiali del 1978, che ospiterà e dovrà vincere. La risposta dei ribelli alle ingiustizie del regime è giocare a calcio come quando si è bambini, soltanto in orari improbabili, di notte e fino alle prime luci del mattino. Per svuotarsi e per riappropriarsi di qualcosa di vitale. Del presente.

A un tratto sono in tanti ad appassionarsi a queste loro partite notturne. Ne deriverà un torneo clandestino, quasi senza regole e con una sinistra carica di autodistruzione. Le squadre devono sempre scommettere su loro stesse. L’arbitro in campo non c’è. Chi spacca una gamba a un avversario non viene espulso; semplicemente, la squadra ridotta in inferiorità numerica riceve un vantaggio. Dani non capisce perché abbia accettato questo regolamento, e queste condizioni. O forse sì. Sta cercando di terminare. Deve essere terminato. Non vuole ritornare, vuole andare via.

Adesso sa che esiste la possibilità di combattere all’ultimo sangue pure nella coscienza della sconfitta (p. 50): che i popoli possono andare a morte pur di non consegnarsi inermi al nemico. Perché non vogliono negarsi il presente, non vogliono atrofizzarsi nella malinconia del passato.

(…) ‘rivoluzione’ è letteralmente il ritorno di un pianeta a un punto iniziale di riferimento dopo aver percorso la propria orbita attorno a un altro corpo celeste. Anche la rivoluzione a suo modo vuole ritornare, penso mentre torno verso il letto, vuole ritornare a quello stato incorrotto che in qualche modo si presuppone precedere le ingiustizie della civiltà.

Redenzione, restaurazione, rivoluzione, riscatto. Stesso prefisso. Tutti modi per fuggire al divenire della storia, e rifugiarsi nella rassicurante pace del ritorno” (pp. 134-135).

Luz Azul è un messaggio in codice per dire allarme, ma è anche il nome della bellezza e dell’amore che Dani incontrerà. Un abbraccio totale, il profumo di lei che ti entra dentro e non t’abbandona più. Abiteranno gli interstizi del tempo, amandosi. Lei gli insegnerà tutto delle piante e delle spezie, degli scacchi e del desiderio del ritorno. Scompare per giorni interi, poi torna e rimane in finestra. Non si lascia mai guardare nuda, perché il suo corpo rivela un segreto. Il segreto è la violenza dello Stato, e la resistenza di Luz agli interrogatori. Il segreto è l’ultima richiesta di Manuel. Fermiamoci qui.

Luigi Cojazzi canta l’abbandono e il dolore. Canta il presente, la necessità e la centralità del presente: io esisto hic et nunc, né prima né domani.

Ma abbandono ha anche un senso attivo: è abbandonarsi al presente, lasciarsi vivere, per entrare in una dimensione dove non ci sono più solo la volontà e i rimpianti, ma dove ci si può aprire all’incontro con ciò che è altro. Ed è forse proprio in questo abbandono che il dolore ci può trasportare. Perché il dolore, distruggendo l’io e le sue certezze, purifica dall’attaccamento al passato e al futuro. Forse è proprio nell’accettazione del dolore, in questo abbandonarvisi per andare oltre, che ci si può liberare dalla promessa del ritorno. Perché il dolore ti schiaccia, sì – ma ti schiaccia per sempre sulla superficie del presente” (p. 166).

A dispetto di tutto, a dispetto della morte. Una recensione di un romanzo come questo non può avere nessuna pretesa di esaustività. Mi accorgo che prediligendo l’aspetto esistenziale, quello politico e quello allegorico ho ridotto lo spazio dedicato al calcio, al calcio raccontato come metafora della battaglia e della sconfitta. E che molto altro poteva essere scritto, accennando almeno alla grande qualità e alla credibilità dei dialoghi, e a certe descrizioni assolutamente visive e quindi già cinematografiche – a questo punto mi limito ad attendere il film che un giorno ne deriverà per trovare le attese conferme. Salvatores prenda nota, è già suo, è scritto.

Ai lettori e ai letterati italiani comunico tutta la mia gioia per aver incontrato un romanzo d’esordio che rimarrà nel tempo, e un autore che ha appena intrapreso il suo sentiero di ricerca espressiva. La profezia facile è che da questa missione deriveranno sentimenti di liberazione, di resistenza al potere, di letterarietà, di dedizione al presente: sprigionerà rigenerazione d’una generazione già spenta, e forse felice della sua sconfitta. Ma pronta a dare tutto, fino all’ultimo respiro, per vivere: per essere.

***

In copertina, Maurizio Ceccato gioca reminiscenze anni Settanta e folklore argentino, mostrando un vecchio Tango con tanto di miccia accesa. Al termine della prima lettura, sfogliate il libro concentrandovi sulla carta, come cantava Morici negli anni dei Levia Gravia e come un personaggio nel libro insegna a fare, e aspettate il momento in cui le descrizioni delle partite del torneo si animeranno di fronte a voi. Accadrà. Provate, allora, a passare quel pallone disegnato da Ceccato a un vostro compagno, lanciatelo in profondità. Non importa segnare, importa combattere: è necessario disegnare forme nuove. L’arte è espressione dell’essenza: l’essenza è un presente infiammato di rabbia e di determinazione e di coscienza. A dispetto di tutto, in onore a quel che siamo. Qui, e ora. Grazie, Luigi.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Luigi Cojazzi (Colli Orientali del Friuli, 1976), laureato in Filosofia all’Università di Padova. Traduttore, redattore, viaggiatore e scrittore italiano. Questa è la sua opera prima.

Luigi Cojazzi, “Alluminio”, Hacca, Macerata 2007. Copertina e logo design: Maurizio Ceccato, IFIX Project.

Gianfranco Franchi, novembre 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Questo è il memorabile esordio d’un giovane letterato italiano, il traduttore, viaggiatore e redattore Luigi Cojazzi, classe 1976.