Alle spalle di Trieste

Alle spalle di Trieste Book Cover Alle spalle di Trieste
Fulvio Tomizza
Bompiani
1995
9788845244087

1995. Sessantenne, lo scrittore istriano Fulvio Tomizza pubblica una raccolta di saggi brevi e di articoli scritti tra il 1969 e il 1994, originariamente apparsi tra quotidiani e periodici; si tratta del suo ventitreesimo libro. “Alle spalle di Trieste” è un lavoro assemblato con intelligenza e con discreta ispirazione: il risultato è un testo a metà strada tra un diario, politico ed estetico, un seducente “dietro le quinte” di diversi tra i migliori libri di Tomizza (da “Materada” a “La miglior vita”, passando per “La quinta stagione” e “Gli sposi di via Rossetti”) e una convincente testimonianza del complesso rapporto tra l'artista materadese e la sua città adottiva, Trieste, e del suo trascinante amore per l'Istria: per i villaggi e i paesi della campagna istriana, campagna alla quale appartiene, e dal cui humus deriva e discende, e per i deliziosi borghi della costa istriana, espressioni limpide della grande civiltà veneta, figlia della civiltà romana.

Non solo. “Alle spalle di Trieste” include diversi omaggi ai letterati giuliani, istriani, veneti e friulani del Novecento; come vedremo, non mancano singolari passi dedicati ad artisti e intellettuali finiti per diventare, col passare del tempo, quasi antagonisti di Tomizza: come, per intenderci, Claudio Magris.

Cronologicamente, “Alle spalle di Trieste” sta tra due opere marginali, vale a dire il fiacco romanzo storico “L'abate Roys e il fatto innominabile” [Bompiani, 1994] e il cupo, torbido e capitolino “Dal luogo del sequestro” [Mondadori, 1996]. Rispetto a questi due mediocri risultati narrativi, “Alle spalle di Trieste” finisce per stagliarsi con naturalezza come un inatteso nuovo picco nel'opera tomizziana, che sembrava progressivamente sprofondare nella maniera e nella ripetitività, a quel punto, perdute freschezza e vivacità. Entriamo, allora, nel vivo del libro.

Chi conosce l'opera tomizziana legge già quel titolo - “Alle spalle di Trieste” - con un sorriso beffardo. Diversi romanzi dell'artista umaghese raccontano, con deboli e momentanee eccezioni, l'alienazione e l'estraniamento di chi, venendo da diversa e contadina cultura, non ha mai saputo ambientarsi del tutto in città, e spesso ha finito per criticarla, per impoverirla; oppure, raccontano di chi ha finito per amare ciò che era al di là della città, vale a dire il Carso e chi il Carso viveva: cioè, tendenzialmente, la comunità slovena. E questo sentendo sempre una viva soggezione sia nei confronti del mare, sia nei confronti della buona borghesia giuliana. Decidendo di pubblicare un un libro con un titolo del genere, insomma, Tomizza giocava quindi sia sulle sue origini istriane, sia sulla sua defilata posizione nel tessuto sociale cittadino: diciamo “laterale”, molto più di quanto ci si poteva attendere, considerando la sua fortuna internazionale. “Laterale” quando non leggermente antagonista.

E invece cosa traspare dagli articoli pubblicati in questo libro? Come vedremo, in parte qualcosa di prevedibile, vale a dire una serie di critiche non sempre equilibrate e non sempre estranee a un poco di livore; in parte qualcosa di politicamente intelligente e lucido, in parte qualcosa di imprevedibile; vale a dire, qualche parola di vero amore e di sincero apprezzamento per la città. Una città che, nonostante fosse stata la sua da oltre trent'anni, continuava a sentire di “non possedere in pieno” [p. 23]. Un'amante bellissima e sfuggente, che Tomizza non è mai riuscito a capire del tutto, e a dominare.

Trieste è raccontata come una città “emporiale e cosmopolita”, gioiello austriaco caduto in disgrazia sotto amministrazione italiana; una città “più nevrotica che beata” perché in una manciata d'anni ha perduto ciò che aveva fatto la sua fortuna, vale a dire il suo baricentro economico, etico e culturale, vale a dire il suo “retroterra immediato e sentimentale”, l'Istria, e quello “prossimo e d'interessi più vasti”, cioè l'Austria e la Mitteleuropa, e i paesi dell'Est europeo. Una città “affascinante e difficile”, non più capace, dal 1918, di accettare, riconoscere e tutelare le sue diverse anime, etniche e linguistiche, e la sua diversa inclinazione geopolitica. Una città che non ha saputo reinventarsi nel nuovo concerto italiano, soprattutto post perdita dell'Istria, 1954, e non sempre ha saputo dialogare con le vicine provincie di Pordenone e Gorizia; men che meno, in generale, con la regione Friuli alla quale è stata accorpata. E questo nonostante, storicamente, giuliani, friulani e goriziani abbiano condiviso secoli di commerci e di relazioni con gli abitanti delle vicine regioni della Stiria e della Carniola, vale a dire l'odierna Slovenia.

Trieste è una città in cui, secondo Tomizza, si parla un dialetto “rozzo e fluttuante”, estraneo alla retorica; quel dialetto è la chiave d'accesso alla città, è storicamente la koinè che tutti, vivendo a Trieste, adottano: quale che sia la loro nazione di provenienza e la loro etnia principale, quello è il terreno comune. È un dialetto “composito ed estremamente concreto, colorato di quella particolare aria di mare e di Carso, e in armonia con essa”: un dialetto che figlia “lealtà e abnegazione, scetticismo e larghezze di vedute, solidarietà e audacia calcolata” [p. 28]. Il dialetto che insegna la filosofia del “no spander”, già.

Tutto tende a esasperarsi, come a suo tempo scriveva qualcuno, ma la città mantiene una sua “urgenza di ordine e pulizia”, di “marca quasi puritana ed ereditata infatti da altre culture”; per questa ragione, il “triestino eletto” può finire per fare il “predicatore”. Tomizza non sembra avere particolare simpatia per Slataper, e non fatica a chiarire che è a lui che si sta riferendo. Ma con lui riconosce che a Trieste “ogni cosa è duplice o triplice, cominciando con la flora e finendo con l'etnicità”. E così finisce per ammettere con malinconia che la città è stata decisamente ferita dal Novecento: per Tomizza, è come una “donna di una bellezza sfiorita, ma così inconsapevole di esercitare ancora un suo fascino, da rifugiarsi e bearsi nello splendore passato”.

Poco visitata dagli italiani, estranea a un turismo che non sia strettamente culturale o di sponda, considerata la felice posizione a metà tra Venezia e Fiume, non distante da Vienna e Praga, la Trieste di Tomizza è una città che incute soggezione e allo stesso tempo suscita una profonda tenerezza, e tanta rabbia per la sua ingiusta decadenza.

Tomizza intravede la possibilità di rinascita di Trieste già nei tardi anni Sessanta, e negli anni Settanta, quando s'accorge che la città diventa, poco a poco, l'emporio dei popoli jugoslavi – vale a dire, sloveni, croati, serbi, montegrini, slavi macedoni e bosniaci – già parte attiva del favoloso “mosaico absburgico”: per Tomizza, ciò dimostra che Trieste ha le potenzialità per tornare a essere ciò che è stata, almeno negli ultimi due, gloriosi e ricchi secoli vissuti da portofranco dell'Impero; un luogo in cui si può prosperare, fare grande cultura e in cui si possono parlare tante lingue, e un dialetto soltanto.

**

Ma Tomizza non si è fatto triestino – nonostante il matrimonio con una cittadina ebrea triestina, nonostante il lavoro, nonostante la bellezza della città, nei suoi eleganti quartieri austriaci, nel suo pittoresco borghetto ladino. Tomizza infatti cerca sempre la sua campagna – l'Istria da cui veniva – nella città. E allora finisce per parlare bene di un rione popolare e laterale, San Giovanni: vale a dire, “il punto in cui la città si ritrae al massimo dal mare per bloccarsi, dopo essersi appena appena arrampicata, alle pendici del Carso”. E cosa fa innamorare Tomizza del rione? È presto detto: “L'aria di paesotto dischiuso al flusso cittadino, le casette ornate dall'orto o perlomeno da una vite a pergola, i volti rubizzi e insieme disincantati della gente”, che “sanno di campagna e sanno di città”: è l'aria del primo posto che ha conosciuto a Trieste, con suo papà, e ha qualcosa di speciale.

In compenso, Tomizza sa ammettere che questa è una città tra le più civili e dotate d'Europa: “Quanti altri centri di poco sopra ai duecentomila abitanti possono vantare il suo reddito pro capite, i depositi bancari, la finezza dei negozi, la diversità dei luoghi di culto, il prestigio del teatro dell'opera e della società dei concerti, la frequentazione di librerie e biblioteche, il gusto e l'intelligenza che guidano tali scelte, la fama internazionale di una decina tra scrittori e artisti, un centro di ricerca scientifica nel quale operano due Nobel?”, si domanda, e a ragione; dimenticando tuttavia di nominare tante altre cose belle e nobili della città di Svevo, e di Saba. Tomizza ammette che la città ha perduto il portofranco, i cantieri, le grande compagnie di navigazione; eppure, Trieste ha mantenuto vivo il suo spirito – e sembra sempre sul momento di rinascere. Da un giorno all'altro. Magari basterà soltanto un poco di Bora...

**

“Alle spalle di Trieste” include, naturalmente, diverse e notevoli pagine sull'Istria; questo era ragionevole aspettarselo. Ci sono un paio di forse inattese dichiarazioni d'amore ai borghi di Dignano e di Rovigno, considerata un dono di Dio, come davvero è; ma ciò che più colpisce è la lucidità e la chiarezza di diversi giudizi: sul popolo istriano; sul “paradosso dei rimasti e degli esuli” e sul “paradosso della memoria”, chiamiamolo così. Vediamo come.

Il popolo istriano è raccontato così: “È, la nostra, una famiglia smembrata i cui componenti si riconoscono nella custodia delle ceneri che si sono portati per il mondo. E insieme una casa abitata da altri, nella quale i legittimi proprietari occupano le stanze di servizio”, scriveva nel 1989. Ma l'Istria per Tomizza è casa: lo scrittore era già tornato a vivere, almeno per diversi mesi l'anno, nella terra dei suoi antenati. E intanto, ai perplessi, ribadiva: “A tutti cerco di far capire che quel cantuccio di terra rossa, cinto da siepi e da un boschetto di roveri, sta diventando il solo ambiente in cui mi riesce di sentirmi vivo, integro, relativamente sereno. È l'habitat precario ma insostituibile di un uomo non entusiasta della vita”, capace di starsene mesi senza leggere giornali o guardare la tv, limitandosi a un poco di radio ogni tanto; l'habitat di un artista che ha nostalgia di un passato che non torna.

Già: perché dopo i fatti del Novecento per gli istriani ci sono due grandi paradossi. Il primo è il paradosso dei “rimasti e degli esuli”, vittime d'una “beffarda nemesi”: “In non pochi luoghi d'Italia dove i profughi giuliani hanno cercato d'inserirsi per eccesso d'italianità, dai locali essi vengono chiamati 'slavi'; e i figli di coloro che alla madrepatria lontana hanno preferito la Jugoslavia, per la maggioranza croata sono rimasti 'taliani', che in quel contesto vuol dire, e viene anche detto, 'fascisti' ”.

Il secondo è il paradosso della memoria: “In seguito ai due esodi massicci verso l'Italia, avvenuti nel '47 e nel '54 all'indomani del Trattato di pace e del Memorandum di Londra, le cittadine venete della costa si sono interamente vuotate consentendo una concentrazione di sloveni, di croati e perfino di albanesi del Kosovo. La campagna, notoriamente mistilingue, per fedeltà alla propria identità disinvoltamente eterogenea, formatasi ancora ai tempi della Repubblica di San Marco, ha invece conservato e addirittura rafforzato la sua componente italiana, inducendo i nuovi arrivati ad assumere, per un loro armonioso inserimento, quanto sopravvive dell'antica cultura veneta”.

E quindi, adesso “è più facile sentir parlare italiano negli sperduti paesini collinari anziché nelle piazze tanto fiere delle loro vestigia venete da mostrare insofferenza verso le popolazioni rurali, che sembravano deprimerle o addirittura smentirle”. Notevole, e inatteso. Molto.

**

Passiamo a un altro aspetto notevole del libro: quello delle reminiscenze, dei richiami e dei giudizi letterari; o delle memorie letterarie, in genere, dello scrittore istriano, accostato in gioventù – a ragione – a Verga e a Tozzi per il suo folgorante esordio, “Materada”.

Tomizza, in un solo caso – uno scritto giovanile, datato 1969 – dice “noi triestini”, parlando dell'ambiente letterario: ma come spia linguistica della probabile coscienza della stravaganza della sua battuta, lui così attento alla peculiarità della sua origine e della sua madrepatria istriana, va detto che curiosamente nello stesso scritto finisce per includere due dalmati, Enzo Bettiza da Spalato e Franco Vegliani, tra i “triestini emigrati”, capaci di emergere in un ambiente “estraneo se non addirittura ostile”. Tra dalmati e triestini c'è ovviamente discreta differenza, va detto.

Ma per finire il discorso: nel contesto di quell'articolo, “triestino” a quel punto si poteva considerare l'istriano di Lussino, Giani Stuparich, l'istriano di Rovigno e di Capodistria Quarantotti Gambini, l'istriano di Materada Fulvio Tomizza: tutti triestini acquisiti. È una leggera forzatura giustificata dalla storia: e dalla congettura tomizziana che, in quel periodo storico, in città non ci fosse “una forte personalità di scrittore”, forse nemmeno tra i giovani. Con un'eccezione: “il trentenne Claudio Magris, saggista e pertanto portato, almeno finora, a registrare e ad illuminare anche demitizzando, più che ad accrescere e ad arricchire”.

Chissà, Tomizza forse pensava, in quel periodo, di poter diventare il cantore del proletariato triestino, dopo essere stato la voce del popolo delle campagne istriane. Mostrando “terra vergine” attorno a sé, in città, voleva aprirsi un varco – che forse avrebbe davvero intrapreso soltanto vent'anni più tardi, parlando non dei proletari, ma della comunità slovena di Trieste, nel memorabile “Gli sposi di via Rossetti”.

Vent'anni più tardi, l'ex giovane Magris era diventato già “qualcosa di più di un eccellente conoscitore della letteratura e della mentalità austrotedesche. Con 'Il mito asburgico' e 'Danubio' ha saputo sbalzare un profilo compiuto e decantato sia della grande Vienna, sia dell'intero arco di regioni e di popoli illuminati in pieno, e via via di sbieco e di riflesso, dalla civiltà di lingua tedesca, ponendosi al centro di quel grande e variegato teatro nel molteplice ruolo del protagonista casuale, del mattatore, del mediatore, del buttafuori, del suggeritore”.

Chissà cosa avrebbe scritto oggi, 2012, meditando sulla diversa fortuna del suo concittadino [d'adozione, si capisce]: Magris è entrato nei “Meridiani”, come critico e come narratore; parecchi libri di Tomizza faticano a superare i confini del Veneto, qui in Italia: le ristampe non sembrano più incontrare il favore del pubblico. Come cambiano le cose.

**

Torniamo ai giudizi letterari. Sconcerta un po' l'entusiasmo per un romanzo tutt'altro che memorabile come “Il segreto” dell'Anonimo Triestino [Voghera], considerato addirittura “un miracolo”, “frutto maturo staccatosi tardivamente dal grande albero” (forse caduto in testa).

Appare Stelio Mattioni, associato a Kafka per le sue “favole grottesche e metafisiche”, più vicino alla Mitteleuropa che al suo amato Pirandello. Appare più volte Biagio Marin, grande amico di Tomizza, poeta amatissimo, capace di “conciliare la bellezza angusta della sua laguna gradese con i fermenti della Vienna abbordata in giovinezza”. Appare Renzo Rosso, nominato tra i triestini finiti per fare fortuna in altre città (Roma); la Gruber Benco viene considerata, addirittura, “degna erede della letteratura triestina”; non è il solo errore di valutazione – Tomizza critico era un poco fiapo, disemo cussì. Qua e là s'intravedono i grandi nomi del passato giuliano, i soliti; apprezzabile l'idea di associarli a uno che stava diventando più triestino dei triestini, cioè Giacomo Zois.

**

Mi fermo qui – segnalando ai curiosi, come ulteriore ragione di acquisto e di studio di “Alle spalle di Trieste”, che in questo libro ci sono notevoli pagine dedicate alle antiche comunità croate del Molise [solita storia: popoli balcanici in fuga dalle orribili violenze turche, nei secoli scorsi: croati come albanesi, dalmati come serbi, greci come ciprioti...], presenti nelle località di Acquaviva, San Felice e Montemitro, visitate dall'artista; e infine segnalo che a un tratto, quando parla della Bora, Tomizza descrive un mondo che verrà, e un paese che potrebbe essere bellissimo. Il pezzo si chiama “E' tornata la Bora”; è un'utopia del 1991. Leggetela.

**

Da avere. Da interiorizzare. Da tenere a portata di mano.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, frazione di Umago, Istria, Italia; 1935 – Trieste, FV-Giulia, Italia, 1999), scrittore e giornalista istriano. Esordì, come narratore, pubblicando “Materada” nel 1960.

Fulvio Tomizza, “Alle spalle di Trieste”, Bompiani, 1995.

Approfondimento in rete: WIKI it

Gianfranco Franchi, maggio 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Quando parla della Bora, Tomizza descrive un mondo che verrà, e un paese che potrebbe essere bellissimo. Il pezzo si chiama “E’ tornata la Bora”; è un’utopia del 1991…