Alla periferia del ’68

Alla periferia del '68 Book Cover Alla periferia del '68
Fulvio Russo
Sovera
2003
9788881243457

Nel 1969 promisi di scrivere qualcosa sul periodo che stavamo vivendo. Ci ho messo 34 anni ma ho mantenuto la promessa” (Russo).

A metà strada tra demistificazione, rivelazione e cronaca dello spirito e dei colori d’una generazione, “Alla periferia del ‘68” è un romanzo breve di singolare verve e notevole originalità: è la storia dei tre anni d’attesa della rivoluzione di un gruppo di giovani forlivesi, del loro impegno e dei loro sogni; e dell’amarezza derivata dall’impatto con il tradimento dell’utopia, e dalla corruzione e dalla degenerazione dell’ideologia.

Il libro, strutturato per brevi capitoli, è sostanzialmente suddiviso in due parti: nella prima, che presenta un testo costruito per “strisce”, un po’ alla Peanuts, incontriamo i protagonisti del romanzo nel fulcro della loro attività politica e del loro impegno: tra manifesti ciclostilati negli oscuri meandri d’una parrocchia, volantinaggio semi-clandestino e attacchinaggio segretamente monitorato dalle forze dell’Ordine, più o meno consenzienti (e discretamente informate dalla spia di turno), battaglie per denunciare la condizione degli operai e debiti spalmati da un tipografo anarchico, non manca una ricchissima registrazione di aneddoti legati a personaggi ed eventi notevoli: dal “grosso degli studenti” Ferrara al Lucrezio Caro (p. 32), al boicottaggio della bolsa retorica di “Berretti Verdi” (p. 33), dal puntuale ostracismo del giovane Bartoletti, nella redazione de “Il resto del Carlino” (p. 36), all’epifania d’un D’Alema che preferisce Claudio Lippi ai Beatles (p. 46), dalla genesi di “Porci con le Ali” (p. 55) ai primi ciak di “Roma” alla stazione di Bologna (p. 59). E non mancano neppure le prime lezioni di Prodi in autobus (p. 65: spiega Cournot in otto fermate), e la narrazione della fondazione dell’atipica e provvisoria “Università di Forlì” (p. 61). S’intravede un legame guareschiano tra il curato della parrocchia, Don Balardi, e i giovani comunisti: s’avverte reciproco rispetto per la differente fede, ci si diverte osservando l’iter degli scambi di cortesia – un ciclostile val bene una mascherata da chierichetti. L’Italia non cambia.

Nella seconda parte, si racconta d’un viaggio in Africa dei sette protagonisti del libro: sulle orme dell’uomo-gazzella, nel Sahara spagnolo. L’avventura ha inizio in treno, attraverso la Francia e la Spagna franchista: fascinosa la descrizione d’una corrida, vissuta nel segno delle pagine di Hemingway – non è che il principio d’un’esperienza che vedrà i ragazzi finire, senza visto, in Marocco, mentre infuria un’epidemia di colera, e la popolazione muore di fame e assiste a fucilazioni di piazza; di là, in Algeria, a parlare di Mattei con un proto-integralista islamico e a vivere tra i tetti e le terrazze della Casbah, ospiti d’un popolo amico e solidale e umanissimo; e tra i tuareg, ad ascoltare la voce del deserto, e a scoprire se stessi. Il ritorno vedrà i ragazzi inevitabilmente disadattati: è l’anno 1971, le sedi del Movimento stanno chiudendo, qualcuno è diventato quadro di partito, altri si sono riservati nuove strategie di lotta, extraparlamentare, of course.

È svanito un mondo, e vivendo alla periferia del ’68 se ne sono accorti con qualche anno di ritardo: colpo di grazia d’una serie di delusioni e di prese di coscienza, che condurranno i protagonisti del libro a diverse scelte esistenziali e a difficili conflitti con l’ideologia-madre (si veda la delusione di Davide nei confronti della gestione delle Coop rosse: p. 126) – e a un’inevitabile frammentazione e dispersione del gruppo.

Non voglio parlare della sinistra di oggi. Non voglio sparare sull’ambulanza della Croce Rossa carica di feriti, con le quattro gomme bucate, senza freni e con un pazzo alcolizzato al volante” (p. 141). La lingua del “cronista” Russo è fluida e netta e la ricezione del testo non incontra difficoltà o ostacoli particolari: molto efficace, soprattutto, la rappresentazione dei ritmi e dei colori del parlato. Interessante l’adozione delle e-mail, nella parte finale del libro: notevole l’integrazione di foto (provocatoriamente “censurate”, in diverse circostanze) e disegni tra un breve capitolo e l’altro – quasi a esasperare la già nitida percezione d’un’opera che ha qualche debito con la struttura dei fumetti a strisce. Infine, una suggestione: appare evidente l’adattabilità cinematografica del libro: potrebbe derivarne un’opera paradigmatica e generazionale, divisa in una parte d’amarcord della provincia italiana e una a metà strada tra l’allegorico e l’iniziatico con il viaggio di formazione del gruppo.

Sarei tentato d’azzardare un parallelismo: che valga, se non come provocazione, come tentativo di interpretazione del codice genetico di questo libro. L’altra “Resistenza”, antieroica e quotidiana e umanissima, è stata rappresentata da Luigi Meneghello ne “I piccoli maestri”: che voleva essere diario d’un tempo e d’una generazione, canto dell’innocenza che va a infrangersi nella guerra, pamphlet di quei giovani che aderivano alla lotta antifascista per istinto e per intelligenza, non soltanto e non sempre per ideologia. L’altro Sessantotto che prende forma nel libro di Russo non è ovviamente quello radical-chic e artatamente allegorico dei Dreamers di Bertolucci: né quello mitologico e propagandistico delle nostalgie di chi allora era, e oggi non è più nulla; è quello dei giovani cittadini che sentivano, credevano e sognavano, e vivevano una realtà non libresca, né partitica: esistevano nel segno e nel disegno d’un altro mondo possibile, che i loro leader di allora hanno barattato per una scrivania e una vita borghese. Ottima ragione per leggere questo romanzo e assaporarne l’essenza: con una spontaneità impressionante demistifica e rivela, evitando qualsiasi filtro.

Nella prefazione, Luciana Castellina afferma che questo libro è un “diario di un gruppo di amici che il ’68 l’hanno vissuto nella provincia italiana, che da quel movimento sono stati pur marginalmente coinvolti ma certo segnati”: e assicura che “non vuol essere una riflessione sul senso di quella rivolta generazionale”, riconoscendo però che è un prezioso “pezzo di microstoria” (p. 5). Onestamente, dubito che “Alla periferia del ‘68” non voglia essere una riflessione sul senso di quel che è accaduto: mi sembra invece che trapeli l’ambizione e l’intento di voler raccontare quel che altrove non viene raccontato, o viene al limite ammesso con qualche fatica e un certo, comprensibile, imbarazzo. E allora, i termini della riflessione che dovremmo, da lettori, serenamente ponderare sono presto stabiliti: stabilendo un paragone con quel che accade per certi fenomeni linguistici, maggiormente conservativi proprio nelle periferie d’un’area, dovremmo domandarci quanto sia, per restar fedeli alla terminologia della Castellina, “microstoria” quel che invece appare microcosmo. La distinzione non vuol essere retorica.

Nell’introduzione, David Riondino coglie un aspetto che mi sembra invece fondamentale: “il libro è, come ogni libro dovrebbe essere, una piccola macchina del tempo” (p. 7): la freschezza e l’immediatezza dei dialoghi, il felice spirito d’osservazione e di registrazione degli eventi, la demistificazione di certe agiografie capanniane appartengono a questo romanzo breve – che va a collocarsi come ponte tra generazioni, adottando una lingua che appartiene ad entrambe.

”Non è luogo comune. In provincia si sa tutto di tutti ma ci sono delle cose che non si riescono a sapere in nessun modo. Per quanto tu possa indagare troverai mille versioni, contraddittorie e conflittuali con la logica. Sono le vicende alle quali hanno partecipato più persone, ognuna delle quali ha un pezzo di verità che non intende mettere in comune. E così, del mosaico, rimane solo la cornice” (p. 32)

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Fulvio Russo (Napoli, 1949), scultore e scrittore italiano. Ex del ’68, ex commissario di polizia.

Racconta nella sua biografia: “Nei primi anni ‘80, a Forlì, termina il libro Il laboratorio alchemico di Eltore Elica dove si de­scrive la vita di un ipotetico laboratorio per la costruzione di creature viventi. Decide di non pubblicare il libro ma di tradurlo in realtà. Assume il nome di Eltore Elica, apre un vero laboratorio alchemico e in pochi anni, con l’aiuto di due assistenti, costruisce trecento creature viventi. Creature in legno e oro zecchino, polvere di corallo e circuiti integrati. Macchine che parlano, respirano e si muovono secondo un loro incomprensibile capriccio. Macchine Alchemiche che distinguono gli adulti dai bambini e conversano solo con questi ultimi, macchine per vedere l’infinito o solo per prevedere la fioritura di fiori di campo. Il sogno è realtà”.

Fulvio Russo, “Alla periferia del ‘68”, Sovera, Roma, 2003. Prefazione di Luciana Castellina. Introduzione di David Riondino. Attualmente, è in preparazione la seconda parte del libro.

Gianfranco Franchi, aprile 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.