Afghanistan Picture Show

Afghanistan Picture Show Book Cover Afghanistan Picture Show
William T. Vollmann
Alet
2005
9788875200114

L’idealismo di un Giovanotto non assicura la risoluzione delle guerre, non consente di salvare il mondo e non prevede il trionfo su un nemico così ostile come la dissenteria: sostiene e alimenta, piuttosto, la creazione di un documento unico e partigiano come questo romanzato e differito reportage.

William T. Vollmann, apprezzato scrittore statunitense classe 1959, pubblica nel 1992 questo “An Afghanistan Picture Show, Or, How I Saved The World”, resoconto d’una fallimentare e stupenda esperienza di vita: la sua partenza alla volta d’una terra sconvolta dalla barbarie dell’invasione socialista sovietica, il suo sostegno al popolo afgano – definito infine “estremista musulmano” dai ruus allora al potere – armato di due macchine fotografiche, tre obbiettivi e quattro rullini. In marcia, sul sentiero dell’altruismo. Per documentare e raccontare le condizioni di vita dei profughi, la solidarietà pachistana, le terrificanti violenze delle truppe occupanti comuniste; le dinamiche interne nell’allora nascente movimento dei mujaheddin, le possibilità di adattamento di un giovane yankee in quel contesto. Ambizione: sensibilizzare il Congresso e i suoi concittadini alla questione afgana, per liberare quel popolo dai tentacoli russi. L’esito non poteva essere che esclusivamente letterario… non potevano mancare sensi di colpa e fastidiosa coscienza della propria impotenza, di fronte alla (apparente e strategica) freddezza della propria patria nei confronti del dolore di quelle genti. E il Giovanotto, con un po’ di vertigini per via della febbre, comprese all’improvviso il suo ruolo di americano: assumersi la responsabilità di qualunque cosa” (p. 84). Scrivendo.

Conserviamo quindi questo documento – rivisto, ampliato e corretto prima della pubblicazione, a diversi anni di distanza dalla trascrizione degli appunti – come fonte di informazioni a proposito di quanto avveniva quando il popolo afgano era martoriato dai sovietici: Breznev rifiutava “interferenze imperialiste” e denunciava la spedizione di reparti armati nell’Afghanistan “rivoluzionario”. Questo passo aiuta a capire la percezione afgana degli invasori russi; a parlare è un generale di brigata: “Nel sacro Corano dice: ‘Non uccidere i popoli’, ma chi è i popoli? Popoli sono popoli quando seguono i Libri Sacri. Libri Sacri è quattro: Corano, Bibbia, (indecifrabile) e Torah è i libri. Questi è popoli. Chi non piace i Libri, loro NO popolo. I ruus è selvaggi. (…)” (pp. 88-89; assieme alla denuncia degli omicidi dei bambini, delle donne; delle violenze sessuali su cadaveri di entrambi i sessi. Cfr., invece, p. 283 per apprezzare l’originalità delle mine sovietiche). Più avanti (ad es., p. 128) Vollmann ribadisce che l’ateismo sovietico era una ragione di disprezzo assoluto: l’aiuto americano era auspicato proprio per via della fratellanza tra “Popoli del Libro”.

Sin dalle prime battute del libro, che ha inizio giusto alla dogana, Vollmann si sente “incalzato”: smania per conoscere la sofferenza di un popolo e per alleviarla. Vuole adattarsi, perché: “Colui che si adatta in modo insufficiente a una società estranea è una sorta di fallimento evolutivo, condannato alla sterilità, all’isolamento, all’estinzione; colui che si adatta troppo deturpa l’io che ha avuto alla nascita. Il Giovanotto, essendo giovane, avrebbe dovuto adattarsi in maniera sostanziale; aveva una minore quantità di io precedente da negare” (p. 53). Così, vive – con qualche prevedibile difficoltà, e una serie impressionante di tenaci parassiti intestinali – come un atipico combattente afgano, senza conoscere mai altro episodio bellico che non sia una scaramuccia: non sa sparare, lui è una coscienza che sta lì per osservare e documentare. S’accompagna a figure notevoli come un discusso generale di brigata, in Pakistan per cercare nuovi aiuti: generale che si dispera per l’indifferenza americana, pretende di tornare a sparare al nemico, non vuole portarlo con sé oltre confine perché lo considera un figlio, non vuole che gli accada niente di grave.

Intanto, raccoglie e riferisce notizie interessanti: a Peshawar i mujaheddin erano suddivisi in sei fazioni, in contrasto per antagonismi tribali e ambizioni ideologiche differenti: il primo gruppo ospitava i maestri, i “mullah”, fondamentalisti; il secondo i socialdemocratici, liberal-progressisti, più vicini alle nostre sensibilità. Sappiamo bene chi ha saputo prevalere, e con quali drammatiche conseguenze, nel tempo. Una nota, a p. 128, ci aiuta a scoprire dell’altro: “Alcuni ospiti dei campi, tuttavia, facevano una distinzione tra mujahid (santo guerriero di quella che veniva percepita in primo luogo come una guerra santa) e mujahier (profugo a causa della persecuzione contro la religione)” (p. 128).

Pochi profughi erano riusciti a raggiungere gli USA o la Germania Ovest, dove avevano mantenuto un adeguato tenore di vita; gli altri erano tra Iran e Pakistan (circa tre milioni), disposti spesso a tornare indietro per combattere contro l’invasore comunista. Vollmann li descrive come generosi e solidali tra loro a dispetto delle oggettive difficoltà di vita; accenna ai giovani come a suoi simili, senza denari, educati ed estranei agli alcolici. Racconta che in ogni caso i ricchi erano assegnati agli alberghi, a Peshawar, mentre i poveri venivano assemblati in questi campi. A patire malattie, miseria, scarsità d’acqua (p. 200) e a cercare fortuna vendendo i medicinali nei bazar. Racconta di scuole senza libri, con tanti allievi di diverse età in un’unica classe.

La narrazione di “Afghanistan Picture Show” è intervallata dalla voce fuoricampo di Vollmann trentenne, consapevole del relativo fallimento della sua impresa e della sua impossibilità a incidere diversamente; il registro muta, passando da una sostanziale presa diretta, emozionale e vivida, a una più algida e matura distanza. Ne deriva un quadro di chiara vicinanza spirituale al popolo afgano – ormai difficile da decifrare per noi contemporanei, alla luce della recente invasione americana –, di netta e sprezzante distanza dalla cultura comunista: ne deriva una pacifica descrizione dell’alleanza in atto tra pachistani e statunitensi, che può rivelarsi interessante chiave di lettura per quanto recentemente accaduto in quelle terre martoriate dalle guerre. Era difficile attendersi equidistanza, considerando la nazionalità dell’autore e la sua giovinezza; meno plausibile era la possibilità di dover prendere atto della sfiorata simbiosi tra lui e i mujaheddin afghani, i futuri terroristi islamici temuti da tutte le amministrazioni americane. Al di là di qualche caratterizzazione che vellica il grottesco, l’impressione di rispetto e di considerazione nei confronti dei suoi nuovi amici è molto nitida: e decisamente interessante nell’ottica d’una lettura dei primi passi yankee per andare – pensiamo e sappiamo oggi – a sostituire con mezzi non dissimili i precedenti, irrichiesti “protettori”.

Concludo auspicando la possibilità d’una interpretazione futura soltanto letteraria di quest’opera: oggi è impossibile leggere, nella coraggiosa impresa intentata dall’allora ragazzo Vollmann, soltanto una drammatica lezione di vita; perché quelli che va descrivendo come coraggiosi guerrieri d’un popolo sofferente si sono tramutati in barbari assassini e in nemici della civiltà occidentale, nella percezione dei suoi concittadini e non solo. Stupisce quindi, nel 2007, non solo leggere la storia di questo “Rimbaud californiano”, per dirla con le parole di Tommaso Pincio: ma leggerla con la memoria intasata dai crimini di guerra di tutti gli eserciti a danno di un unico, sciagurato popolo, colpevole di abitare una terra che fa gola a tutti gli imperi. Quale che sia il loro Libro di riferimento. Gli aiuti americani sono infine arrivati: erano questi aiuti che gli afgani avevano richiesto? Intanto, gli ex alleati mujaheddin si sono rivelati primi nemici. Vollmann ne parla con diverso spirito. Almeno: non con acredine. Curioso.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

William Tanner Vollmann (Los Angeles, California 1959), giornalista, saggista e scrittore americano.

William T. Vollmann, “Afghanistan Picture Show – ovvero, come ho salvato il mondo”, Alet, Padova 2005. Traduzione di Massimo Birattari. Risvolto di Tommaso Pincio. In appendice, una fondamentale cronologia e un elenco di fonti.

Prima edizione: “An Afghanistan Picture Show, Or, How I Saved The World”, 1992.

Approfondimento in rete: Wiki en

Gianfranco Franchi, settembre 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.