Adelphi
2015
9788845930324
Questo agile libretto, dettato nel 1873 da Nietzsche all’amico Gersdorf, si incentra non sulle definizioni di verità e menzogna, ma sulle loro applicazioni: statuti politici, rapporti umani, struttura societaria. L’intelletto è qui definito come lo strumento di conservazione di un individuo: strumento che impiega le sue forze nella finzione, per consentire al più debole di conservarsi. L’articolazione delle possibilità di finzione prevede un ampio ventaglio di esiti: dall’inganno, alla lusinga, alla menzogna, alla frode, sino al mascheramento: al punto che Nietzsche si sorprende che esista in qualche uomo una propensione tanto grande alla ricerca della verità, stante che tutto sia vanità.
Nietzsche riconosce l’ampia valenza sociale del “contratto” o del “patto” stabilito dalla verità: e, in base a questo, offre una prima rilevante definizione del mentitore. “Si serve delle designazioni valide, si serve delle parole, per fare apparire reale ciò che non è reale; egli dice, per esempio, io sono ricco, mentre la corretta designazione per questa condizione sarebbe esattamente povero. Abusa delle convenzioni scambiando o direttamente invertendo i nomi. Se egli lo fa in modo egoistico, e finanche in modo da recare danno, la società non gli accorda più fiducia e lo esclude. Gli uomini poi non fuggono tanto l’essere ingannati, quanto l’essere danneggiati dall’inganno” (p. 33).
Quest’ultima distinzione mi sembra essenziale: quasi fosse un’esplicita dichiarazione di autoconsapevolezza del genere umano, di ennesima dissimulazione perpetrata per la salvezza della specie. Non è allora l’inganno che conta, ma il danno che ne deriva, e qualcosa di simile avviene per la verità: viene accettata solo se positiva o costruttiva, altrimenti viene radicalmente combattuta e rifiutata. Jankélévitch darà ampio spazio alla prima parte di questa teoria, rielaborando sostanzialmente alcune tesi nietzsciane nel suo arguto saggio “La menzogna e il malinteso”. Oscar Wilde, nella “Decadenza della menzogna”, teorizza la menzogna come fondazione delle relazioni sociali e della società civile: proprio perché plausibilmente verosimile; la prima menzogna, almeno com’è stata immaginata da Wilde, è menzogna per la menzogna, bugia in grado di esistere solo perché fine a se stessa.
Torniamo al libro di Nietzsche. L’uomo dunque costruisce concetti, così come le api costruiscono l’alveare con la cera; questo non può che apparire come un segno di grande distinzione tra specie viventi, sebbene rimanga sempre un arbitrio, un’astrazione, scevra di pretese di universalità. Nessuno dei concetti creati dagli uomini è vero in sé: qualsiasi definizione rimarrà sempre antropomorfica. La parola stessa è metafora, ed è il punto d’incontro di verità e menzogna: ragioniamo per immagini, immobili in una zona dell’eterno crepuscolo, confusi tra le luci di verità e menzogne che noi stessi abbiamo costruito, nominato, raffinato, imbellettato, discusso. “Ciò che si chiama verità – scriverà Cioran – è un errore insufficientemente vissuto, non ancora scalzato, ma che non può tardare a invecchiare, un errore nuovo che attende di compromettere la sua novità” (tratto dal “Sommario di decomposizione”, p. 184).
Jünger, nello scritto “Der Waldgang” del 1951 (tradotto parzialmente da Cambon e Canonici nel 1957 col titolo “La ritirata nella foresta” e integralmente da Bovoli nel 1990 col titolo Trattato del ribelle), sostiene: “La parola è materia dello spirito e, in quanto tale, idonea a edificare i ponti più arditi: essa è anche lo strumento supremo del potere (…) si potrebbe dire che esistono due generi di storia: uno nel mondo delle cose, l’altro in quello della lingua. E quest’ultimo è superiore al primo non soltanto per la visione, ma anche per la forza, per la capacità. (…) Le sofferenze passano e si trasfigurano nella poesia” (pp. 131-132). Sia lecito aprire una breve parentesi sul “Trattato del ribelle”: non credo sia avventato giudicarlo un “Principe” ribaltato: il letterato non è più cortigiano o accorto segretario di un potente, ma fraterna spalla del libero pensatore estraniato dal popolo, sostegno del franco tiratore; parrebbe di assistere alla reincarnazione d'un Machiavelli schierato con il debole, per volontà e coraggio di rivoluzione, pur non estraneo alle riflessioni dell’Alfieri in merito all’argomento.
Nietzsche evidenzia come della natura si conoscano e si ammirino gli effetti, e non le cause interne dei processi; e che tutti gli strumenti di valutazione sono desueti, perché creati dall’uomo. L’uomo è accecato dalle sue verità scientifiche sempre in evoluzione e sempre commutabili e reversibili. Il processo di formazione dei concetti si delinea dunque in due differenti momenti: il primo riguarda la creazione del linguaggio e il secondo la speculazione scientifica. Ma cosa davvero interessa agli uomini, in questa disperata ricerca di consensi alle loro elucubrazioni? Qual è la ragione della passione per la ricerca della verità o del senso della menzogna?
È difficile trovare una replica nelle poche pagine di questo prezioso documento; sembrerebbe, come nel caso dell’Accetto, che l’autore abbia deciso di inviarci in esplorazione tra le parole del testo, nella disperata ricerca di un non detto che comunichi un’illuminazione, per così dire, definitiva; divina, forse. La sensazione è che Nietzsche abbia tracciato un sentiero tutto umano di elaborazione del linguaggio; e che il suggerimento sia che l’unica verità da ricercare è nel linguaggio stesso, miracolosa alchimia chimica e spirituale. Si respira qualcosa di prometeico in questa ricerca; uno scavo nel pensiero dell’uomo, nel nostro comune patrimonio genetico, poiché si aspira a scoprire quanto profonda sia la cicatrice originata dall’abbandono di Dio, dalla consapevolezza di aver smarrito la fiducia, o forse la speranza, nell’esistenza di una sovrastruttura, di una mente creatrice, di un comune padre della specie.
Potremmo ipotizzare che il linguaggio e l’immaginazione dell’uomo si siano così sviluppati da aver corrotto la memoria della creazione; o forse, che si siano dilatati tanto da aver radicato l’idea di un’origine della specie indifferentemente divina o semidivina. Nel “Sommario di decomposizione”, Cioran scrive: “L’uomo dovrebbe ascoltare solo se stesso nell’estasi senza fine del Verbo intrasmissibile, forgiarsi parole per i propri silenzi e accordi percettibili unicamente ai propri rimpianti. E invece (…) parla a nome degli altri; il suo io ama il plurale. E chi parla a nome degli altri è sempre un impostore. (…) Al di fuori dell’abbandono all’incomunicabile, della sospensione nel bel mezzo delle nostre emozioni sconsolate e mute, la vita non è che fragore su una distesa senza coordinate, e l’universo una geometria epilettica” (p. 31).
Quanto all'attendibilità della memoria, infine, concludo con questo frammento tratto dal romanzo di Paolo Maurensig “L’uomo scarlatto”, diabolica parabola dell’artificiosità dell’identità e dei ricordi: “Che cos’è la memoria, dunque? Un’immanenza. Uno spazio mentale che potrebbe anche essere indotto artificialmente, dilatato o modificato con farmaci, droghe, o con l’ipnosi” (p. 39).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Friedrich Nietzsche (Röcken, Sassonia 1844 – Weimar, 1900), filosofo tedesco.
Friedrich Nietzsche, “Su verità e menzogna fuori del senso morale”, Filema, Napoli, 1998. A cura di G. Ferraro.
Titolo originale: “Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinne”.
Gianfranco Franchi, settembre 2002.
Breve articolo tratto dalla tesi di laurea “La menzogna nella Letteratura del Novecento”. A ruota, pubblicato su Lankelot.com.