Come si dice addio

Come si dice addio Book Cover Come si dice addio
Federica Manzon
Mondadori
2011
9788804614135

Opera prima di Federica Manzon, scrittrice e consulente editoriale classe 1981, “Come si dice addio” (Mondadori – Collana Strade Blu) ha un gigantesco punto di forza: è un romanzo completamente sbagliato. Non è – come vedremo – un romanzo di formazione, come forse avrebbe potuto e dovuto essere, e non è un romanzo sentimentale, come poteva diventare; non racconta l'incontro tra due culture diverse, ma al limite il fallimentare incontro tra due culture diverse; non prevede nessuna particolare evoluzione nelle dinamiche di interazione tra i personaggi, rimanendo costretto in un incredibile immobilismo. Come se non bastasse, nell'incipit appare la giornata di sole, come nei pensierini dei bambini. E uno pensa: questa è grande satira, non ci piove. E quindi? E quindi, come insegnava Woody Allen in “Hollywood Ending”, un regista cieco può girare un film sperimentale, amato più in Europa che in America. Federica Manzon inventa una storia molto semplice: un gruppo di ragazzi vengono scelti, senza nessun criterio e senza nessuna logica diversa dall'autocandidatura, per partecipare a un Progetto Leonardo; si ritrovano catapultati in Grecia, pronti a chissà quali straordinarie esperienze professionali; in Grecia non capita letteralmente niente, eccettuata qualche scopata per noia e qualche sbirciata perplessa agli autoctoni. Infine, il personaggio più interessante, fatto a pezzi dalla narratrice sin da subito, scompare perché in Italia lo attende una vera, grande responsabilità: la paternità. Punto.

Non amo chi preferisce raccontare storie piuttosto che fare letteratura: fortunatamente, non è il caso della Manzon. Non so quanto volontariamente, ma non è questo il punto. Così com'è, questo romanzo è una impressionante trasfigurazione e una credibile allegoria dell'impotenza, della frustrazione, del vuoto cosmico e inquietante di buona parte, diciamo della maggioranza assoluta, della mia generazione.

C'è l'Europa, che doveva essere chissà quale incredibile passo avanti, da un punto di vista economico, politico e culturale, che si rivela un contenitore vuoto; c'è la Grecia di “una faccia-una razza” ridotta a un letamaio invivibile, con la gente più estranea possibile a questi (ricchi?) ospiti italiani; c'è il lavoro che uno smania per avere e tuttavia non esiste, e quando esiste è grottesco; c'è l'amore che ci si dispera a sognare e si trasforma in stupida e superficiale sessualità; c'è la televisione che tutti malediamo e invece sembra essere l'unico riferimento culturale dei ragazzi, inclusa la narratrice: per descrivere il loro stato non chiama in causa Ionesco o Beckett, lei pensa al Grande Fratello e ai reality. Terrificante, no? Ecco: questo romanzo è la radiografia spietata, esemplare e fredda del niente che rappresenta e incarna la nuova generazione di giovani italiani.

Una generazione che parte e invece non s'accorge che è rimasta chiusa in casa. Interazione autentica con gli stranieri zero, insegnamenti zero, esperienza meno uno. Qual è la frase che la narratrice e i suoi compagni dicono più spesso? “Non ho capito” o “Non capisco”. Quasi come avessimo spedito una banda di trogloditi in stage in Grecia. Forse è proprio così.

Passando per Atene. Atene. Spendiamo due parole su questa scelta. Se c'è una città brutta, sporca, inquinata, invivibile e inguardabile, in Europa, questa è la capitale greca. Ben distante dalle antiche glorie, è probabilmente il posto più squallido del continente. L'ho vista nel 1993 e la ricordo come un incubo di smog, di grigiore e di povertà. Come avranno potuto pensare, questi nostri giovanotti, di potersi formare nella Grecia moderna? Questo rimane un mistero che fa parte, in ogni caso, dell'aspetto romantico, seducente e invincibile del romanzo sbagliato. Guardate che è difficilissimo scrivere un romanzo sbagliato.  A ben pensarci, che c'è di peggio in Europa? La Romania? Il Portogallo? Uno stage in una cittadina rumena o portoghese da 20mila abitanti cosa potrà insegnare mai ai giovani universitari italiani? Non so. Sicuramente non una lingua né una cultura. Nemmeno a vivere, immagino. Certo non si impara a nuotare tuffandosi in mare: così (pazzesco, eh?) si affoga.

“Annamaria ascolta, non so quanto scandalizzata o annoiata dai nostri discorsi, non dice nulla. Mi aspetto che da un momento all'altro una voce fuori campo intervenga e ci tiri fuori di qui. Siamo così terribilmente televisivi nei nostri costumi a colori accesi, le creme solari e le conversazioni esasperate” (p. 108). Già. Così appaiono, questi personaggi. Nulli.

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Un'altra stranezza è il tono della narratrice, nelle prime ottanta pagine: sembra militaresco. Credo di non aver sentito usare forme impersonali nelle descrizioni con tanta freddezza e precisione chirurgica dai tempi dei libri scritti al fronte, nel primo Novecento. Non a caso, a un tratto, appare una vaga reminiscenza soldatesca, ma subito viene sotterrata e sepolta. Sembra quasi che questi nostri bravi (per così dire) studenti universitari siano stati mandati in guerra, in Grecia, e non a fare uno stage farlocco. Che so: arrivano all'aeroporto, e... “Per noi non c'è nessuno. Le vetrate sono imperlate di brina. Si congela” (p. 16). Mamma mia. Scarpe rotte e pur bisogna andar? Non so. Satira, forse. Sì. Per me questa è una favolosa satira.

I greci. Siamo nei pressi dello “Youth Center” che ospita i nostri personaggi. Ecco la provincia disoccupata: “I tavolini dei bar sono pieni di vecchi che sgranano il kombolò. Anche i ragazzi per strada si rigirano le palline colorate tra le dita e fanno roteare in aria la cordicella attorno all'indice, come se fosse un'attività vera e propria. Provano a darsi un tono, il gomito appoggiato sulla portiera della macchina” (p. 29). Potremmo essere a Brindisi come a Canicattì, kombolò a parte. Greci? Fate qualcosa di greco.

“I ragazzi greci hanno lo stesso modo di camminare e apostrofare le ragazze che a Pordenone avevano i militari di leva dieci anni fa” (p. 30). Pare di no. Le macchine sono di quarta mano, ma il comportamento è quello. E...

“Mi sembra di assistere a quelle scene da anni Settanta che raccontano i miei genitori. I ragazzi con gli occhiali da sole sulla spiaggia di Lignano o Bibione che si giocano la loro perfetta frase straniera” (p. 138).

Greche? “Come tutte le greche, anche x cambia vestiti accessori e colori tre volte al giorno” (p. 35). Questo concetto non mi è del tutto oscuro ma stride un po' con la loro recessione economica; ne prendo atto lo stesso.

L'igiene è migliorata? Niente affatto. Nelle vie si sente “odore di immondizie marce, di corpi animali putrefatti e carne in decomposizione, la puzza di morte di qualcosa che è stato vivo” (p. 30). E più oltre, parchi giochi pieni di gatti con occhi infettati e cani morsi a sangue dai topi. Ci siamo capiti. La spiaggia, non vi dico. Preservativi, cocci di bottiglia, etc. Una discarica. Questo libro non è esattamente uno spot turistico per la Grecia. La Grecia è la peggiore ambientazione possibile per una vicenda vuota e insignificante come questa. Un'esperienza di lavoro che diventa vacanza. Uno stage che non comincia mai. Un gruppo di persone che non hanno niente da dirsi, per 200 pagine, e tante, tantissime descrizioni. Guardate che è abbastanza difficile da realizzare, una cosa del genere. Da pensare è sicuramente complessa.

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C'era un personaggio che prometteva bene. L'unico che aveva qualcosa di peculiare. Ma la narratrice lo bastona senza pietà dall'inizio alla fine. Con toni sinceramente strani. Così: “Giacomo è il più buono di tutti noi, di quella bontà pratica e comoda che è una prerogativa delle persone grasse” - come? Cosa significa?

“Una bontà che è un lusso da sfigati, che gli viene dal suo lavoro dove non era necessario dimostrare nessun talento, dove poteva permettersi di fare il generoso in ogni caso” - che lavoro è? Il sagrestano? “Perché non avrebbe mai provocato rabbia o gelosia o rancore, non si sarebbe mai dovuto guardare alle spalle per sopravvivere. Una bontà ipocrita che passava nei fili del telefono, nelle scuse per aver disturbato all'ora di cena” (p. 34).

Ecco, questo Giacomo era, a quanto pare, l'unico antropoide del gruppo; una persona educata e, a quanto è dato di capire, generosa e solerte. Grassa? Sovrappeso. Che male c'è? E perché se un tizio ingrassa allora diventa capace di bontà pratica e comoda? Ciarrapico mica è buono.

Più avanti la narratrice dirà che Giacomo era bello. Che ci sia qualcosa di non detto? Vediamo. “Il corpo grasso di Giacomo continua a ondeggiare sul pavimento con una certa grazia, anche se i movimenti sono troppo lenti e il grasso della pancia nuda dondola in modo osceno. Se lo si guarda a lungo, si capisce che Giacomo è molto bello” (p. 124). Oh, attenzione. Grasso, ondeggia, dondola, ma è bello. C'è qualcosa che non quadra. “I capelli scuri e ondulati, gli occhi verdi con un taglio appena un po' più lungo del normale e le ciglia scure, gli zigomi alti, il rosso delle labbra ben evidenziato da un sorriso aperto, i lineamenti naturalmente aggraziati che seguono la linea perfetta del naso”.

Sarà mica innamorata? Un'innamorata respinta? No. Vi ho detto che questo è il più grande romanzo sbagliato della storia recente. Infatti: “Ma Giacomo ha quella bellezza che non serve a un cazzo” - sic. Non ha spalle dure né gambe magre, il corpo grasso toglie ogni fascino. È “pura carne bianca senza forma” (p. 124).

E con questo, per quanto mi riguarda, è tutto. Leggerò senza dubbio i prossimi romanzi di Federica Manzon, Mondadori o meno che siano, e questo non soltanto perché ho avuto il piacere di conoscerla di persona. Secondo me in lei si nasconde uno dei più grandi geni satirici del nostro tempo. Non avevo mai letto un libro così sbilanciato e grottesco: scritto con tanta serietà, ed è quello che ti stordisce. Alla Buster Keaton. Fa ridere, ma rimane seria. Spiazzante.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Federica Manzon (Pordenone, 1981), scrittrice italiana. Ha pubblicato racconti in “Nuovi Argomenti”, “Carmilla” e nell'antologia di Minimum Fax “Tu sei lei”.

Federica Manzon, “Come si dice addio”, Mondadori, Milano 2008. Collana “Strade blu”.

Gianfranco Franchi, luglio 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.