Rallegrati di queste cose al crepuscolo

Rallegrati di queste cose al crepuscolo Book Cover Rallegrati di queste cose al crepuscolo
Hugh Nissenson
Cargo
2009
9788860050274

“Sono orgoglioso delle bandiere americane appese su tutti i tendoni di West End Avenue. Maledetti arabi del cazzo. L'America attaccata. Incredibile. Una nuova epoca della storia. Vulnerabili sul nostro territorio. Lo vivo come un affronto personale. 'Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la storia' dice Trotsky 'ma prima o poi la storia si interesserà sicuramente a te” (Nissenson, “Rallegrati di queste cose al crepuscolo”, p. 138)

Raccontava Nissenson a Richard Klin in una bella intervista: “Adesso sto scrivendo il mio primo libro sulla New York contemporanea, il primo mio romanzo, da venticinque, trent’anni a questa parte, profondamente ebraico. Parla di un artista ebreo americano, Artie Rubin, un illustratore e scrittore laico e di orientamento liberale, una sorta di archetipo dell’Upper West Side, che ha una terrificante esperienza religiosa. È un libro che rappresenta un po’ la mia… come dire? La mia meditazione matura su cosa significa essere ebrei ai giorni nostri. In particolare, un ebreo laico. Da che parte stiamo, e cosa definisce il nostro ebraismo?”

Il romanzo è profondo, onesto, viscerale e sinceramente, orgogliosamente ebraico, a dispetto del ribadito laicismo; fossi ebreo, sarei entusiasta di essere rappresentato da un artista capace di raccontare la vecchiaia, i dubbi sull'esistenza di Dio e sul senso della vita, il dolore per il distacco dall'amata e le gioie di diventare nonno con questo coraggio e questa semplicità. Nelle prime battute, avevo la sensazione di trovarmi di fronte un alter Mordecai Richler; ma Nissenson non ha la letteraria e magnifica blasfemia del canadese, né la stessa ironia cattiva e sgretolante. Nissenson ha un approccio massimalista, universalizzante; il crepuscolo dei suoi personaggi è lo stesso della civiltà nordamericana, ferita – siamo tra agosto e novembre 2001 – dal dramma dell'attentato alle Twin Towers. Richler preferisce prendersi gioco di tutto, degli uomini, di sé stesso e di Dio, ed escludo che possa associare una catastrofe nazionale a una metamorfosi individuale: è proprio un passaggio estraneo al suo dna autoriale. Nissenson, invece, punta alla sintesi tra universale e particulare. Scelta rischiosa ma catartica, e rigenerante, se l'esito è – come in questo frangente – solare e conciliante.

Artie è molto vecchio; sta per diventare nonno, e ne è entusiasta; ma sua moglie Johanna sta male, ha qualcosa che non va al colon, e lui ha paura che sia qualcosa di terribile. Intanto fanno l'amore, come due ragazzini, con lo stesso feroce desiderio. Nonostante tutto, nonostante gli anni, nonostante la malattia; nonostante la malattia non si riveli quella che temevano, e sappia poi essere egualmente devastante.

È un artista che non ha dimenticato il suo lontano esordio, “Un adattamento del mito illustrato di Orfeo ed Euridice”, e intanto ripetutamente si ritrova a ricordare frammenti del grande e terribile libro di Tadeusz Borowski, e di tanta letteratura dell'Olocausto. Sembra spezzato in due tra la sensualità e la disperazione per le sorti dell'umanità; la sensualità, tuttavia, significa voglia e gioia di vivere: “Artie tornò al suo foglio. All'improvviso la sua mano destra, autonomamente, tracciò tanti piccoli archi che si trasformarono nella nuca rotonda di Betty, nelle sue spalle, nella sua clavicola. Tette sode. Adoro disegnare tette sode. Le loro delicate ombre a forma di mezzaluna sulla gabbia toracica. Ne riprodusse i contorni. Prima i capezzoli con la loro ombra, poi un'altra linea curva per il rotolino di carne alla base delle tette. Non hanno abbastanza peso. Immagina che siano sacchetti pieni. Sissignore, due sacchetti pieni” (p. 117). Artie è vivo, rifiuta il passare del tempo; odia la sua foto sulla metro card per anziani, perché è un riflesso della verità. Invecchia, ma già sogna l'eternità, o il ritorno alla vita, dopo essersi riposato nel grembo di Dio.

E così va meditando sulla mitologia norrena (antidoto alla Torah), cercando una conferma al suo credo e alla sua formazione religiosa; scopre che Odino ha nomi paradossali: il Piacevole, il Terribile, Colui che dà la vita, Colui che acceca con la morte. Ma ha due facce, come Yahweh. Il dio ebreo non muore e non resuscita, a differenza di Odino e Cristo, ma gli ebrei hanno saputo resuscitare, post Olocausto. È un fatto. A partire da queste meditazioni, Artie sembra domandarsi se lui stesso e il suo popolo – quello nordamericano, non solo ebraico – sapranno risollevarsi dalle tragedie che stanno vivendo. Ormai va in sinagoga soltanto per una questione sentimentale; ufficialmente, per sentire suo padre vicino come una volta. È proprio così? Io non ne sono convinto. E penso sia una fortuna che non sia così.

Già che c'è, spesso, Artie accenna al suo malessere per le violenze israeliane a danno del popolo palestinese. Tutto quel sangue cortocircuita la sua percezione di bontà della sua gente, e della sua religione: è quasi come se Artie domandasse suprema e assoluta giustizia, per tutti, e non solo per i suoi. Sono passi molto difficili ma molto condivisibili. Come quelli in cui l'autore descrive la morte di chi si trovava negli uffici all'interno delle Torri Gemelle, l'undici settembre 2001, e mostra tutta la fragilità, la sfortuna e la grandezza di chi andava, senza colpa, incontro alla fine della vita. Improvvisamente, irreparabilmente. Non inconsapevolmente.

La morale della favola è norrenica, e non ebraica. “Odino recitò una poesia: Rallegrati di queste cose al crepuscolo / un altro giorno vissuto / l'amore dell'amata, / una torcia che brucia, / ghiaccio attraversato, / stivali asciutti, / birra bevuta” (p. 236). Crollate le Torri e l'economia che sua moglie Johanna, agente di borsa, aveva conosciuto e interpretato con onestà e amore, crollata la sicurezza d'un popolo che si sentiva invincibile, crollato il sogno di vivere per sempre con l'amata compagna, questa è la morale della favola del nostro narratore. Rallegrarsi comunque di ciò che è buono, vivo, sano e di ciò che ci è concesso ogni giorno, fino alla fine del nostro tempo. Poco che sia, è tanto, e non si ripete. Non è scritto che si ripeta. Una stupenda lezione di umiltà, e di integrità morale.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Hugh Nissenson (New York, 1933 – Manhattan, 2013), scrittore e giornalista americano di sangue polacco.

Hugh Nissenson, “Rallegrati di queste cose al crepuscolo”, Cargo, Napoli 2009. Traduzione di Natalia Stabilini. Copertina di Maurizio Ceccato. Collana Biblioteca di Cargo, 27. pp. 17,50 euro. ISBN 978-88-6005-027-4

Prima edizione: “The Days of Awe”, 2005.

Gianfranco Franchi, dicembre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.