Piano B Edizioni
2010
9788896665039
Persio Nesti (1909-1969), letterato pratese, allievo di Giovanni Gentile alla Normale di Pisa, insegnò in diverse piccole università europee e a Firenze. Saggista, traduttore dal tedesco e dal serbocroato, come narratore pubblicò novelle, romanzi per ragazzi, memoir di guerra: larga parte della sua produzione narrativa è tuttavia rimasta inedita, ed è attualmente conservata presso la Biblioteca dell'Agenzia per il Turismo di Prato. Nel maggio 2010 è intervenuta, a spezzare l'oblio, questa edizione Piano B del suo “Il ventre di Gravebürden", a cura di Giovanni Pestelli, con un'introduzione dello scrittore Saverio Strati.
Pestelli, nella nota al testo, ci racconta che Nesti aveva inserito la sua opera, “ancora priva di un titolo, in una cartella con la dicitura Emigrazione, tema su cui per anni, come testimonia la moglie, aveva accumulato appunti e note”. La datazione è difficile: il curatore tuttavia riferisce che nella primavera del 1969 Nesti e la moglie s'erano recati a Roma per prendere accordi per la stampa del testo, presso un editore. La morte per improvvisa e grave malattia dell'artista toscano impedì che quei primi accordi si potessero concretizzare.
Introduce Saverio Strati: “Persio Nesti era uomo di profonda e seria cultura; era inoltre curioso e inquieto. Insomma era uno spirito errante alla ricerca del vero e del giusto; ma al posto del vero e del giusto, scoprì con amara delusione che la gran massa degli uomini cerca l'utile e l'eros. Di questo è viva testimonianza 'Il ventre di Gravebürden. Appunti sull'emigrazione' […]. Bisogna subito dire che il problema dell'emigrazione non è il succo, il nocciolo del libro. Il nocciolo del libro è la psicologia, la curiosità, lo spirito errante dell'autore. Insomma quest'opera è un autoritratto mentale di Nesti. È Persio Nesti il personaggio-problema; il mondo circostante è solo cornice” (pp. 5, 10). Ed è, vale la pena evidenziarlo, l'autoritratto mentale d'un narratore tanto sperimentale da cadere nella sconnessione, complici spericolate cesure tra una e un'altra parte del suo quaderno di narrativa, fondate spesso su una sbalorditiva fiducia nelle capacità del lettore (di qualsiasi lettore) di stare al passo di queste cesure. Non è così facile. Per nessuno.
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Nelle prime battute, il narratore si trova a un passo dalla frontiera tedesca. E mentre attende, sembra mangiato vivo dall'angoscia. L'angoscia d'essere respinto, nonostante sappia parlare la loro lingua e abbia un permesso di soggiorno in regola: “E poi la mia terra butta emigranti, ondate su ondate, n'ha l'esclusiva. Vedete quei treni interminabili? Emigranti, e ognuno munito d'un foglio rosa. Io non ho quel foglio rosa e vengo in auto e circolo isolato e mi tiro dietro tutti gl'incerti del mestiere – come quello Zurückgewiesen che nell'opaco campo di visti e permessi che gremisce il mio passaporto spicca rosso e solitario, scandaloso. Zurückgewiesen vuol dire 'respinto' e io sono un recidivo, un irriducibile acciuffato e bloccato lì, in quel luogo” [Nesti, “Il ventre di Gravebürden”, p. 15].
Tutto a un tratto, come ottimamente rileva Strati nell'introduzione, l'io narrante muta, complice uno stacco fatto di semplici punti di sospensione: la voce diventa quella d'una donna, si sprofonda nel suo flusso di coscienza, e sta al lettore raccapezzarsi e immaginare cosa sia successo. Commenta Strati: “Al primo momento si rimane perplessi; ma subito si capisce che quello è un flash; è uno di quegli improvvisi ricordi che balzano fulminei nella mente, e ci riportano al passato […]. Con questo metodo, lo scrittore rivive, senza dire 'ricordai', 'rivissi', 'pensai', il suo primo viaggio in Germania appena finita l'ultima grande guerra, quando il Terzo Reich era raso al suolo e nel contempo era cominciata la ricostruzione” (pp. 6-7). Tutto chiaro? Nesti è uno sperimentatore stravagante, in altre parole, forse un po' troppo radicale. Ma con un po' di fantasia e molta buona volontà possiamo ricostruire noi il testo mancante tra una storia e l'altra, un personaggio e l'altro, quando serve. Insomma: noi lettori siamo parte integrante del testo.
Avanziamo. L'io narrante finisce nella cittadina distrutta di Gravebürden, in un'atmosfera che ricorda quel vecchio reportage di Stig Dagerman, “Autunno tedesco” (“Tysk Höst!”, 1947). E parla di sé – sprofonda in sé stesso, scandaglia i suoi stessi abissi. E va cercando senso nei suoi antichi vizi, fumare e bere, e s'inquieta pensando di non avere niente di diverso dalla memoria; e si domanda che senso abbia scrivere, in un'epoca che richiede “semantica nuova”, “cibernetica nuova”. Siamo, tutto a un tratto, nel baratro tutto novecentesco delle scritture che riflettono sulla scrittura. Ben conosciamo. Nella cittadina, il narratore trova alloggio in un albergo. Ex bunker. E la descrizione, davvero notevole, ci aiuta a orientarci in ciò che appariva nella Germania del dopoguerra. Questo è lo scenario... “Prima fortino e poi rifugio quel miserabile troncone che si reggeva sulle stampelle aveva finito per tramutarsi in un albergo. Cieco, muto, rappezzato alla meglio, serbava nella sua eretta cubatura il vasto e diffuso rigurgito d'una perenne illuminazione, un soffio continuo d'aria calda e fredda vi circolava dentro come in un tubo, quasi la tensione, il laborioso brusio d'una centrale elettrica, quasi un croscio, un turbinar d'acque sotterranee. Scampato ai trentacinque bombardamenti che avevan tagliuzzato la città quell'aberrante complesso di sassi e di calcina si drizzava mutilo in un fradicio mondo devastato, spettrale come un albero nella burrasca. E dava a riflettere, manteneva la sua costante d'utilità nella guerra e nella pace, non era disposto a morire a nessun costo, cantava vittoria. E l'omino rosso che piroettava su quell'arca traballante festeggiava a suo modo quella vittoria” (p. 32).
Gravebürden è “città assurda”, “terra di tutti e di nessuno, neutra”, “ibrido e sconcertante agglomerato”, e nel buio camuffa le case crollanti e le mura sbreccate. È un luogo che sa paralizzare l'io narrante, perché tutto a un tratto “le case non sono case, il sole non è il sole”: diventa “castello d'Atlante senza fascino”. Un luogo di sofferenza, un luogo di pena. Lynchiano.
Il narratore scopre che sono tanti gli emigranti italiani che arrivano in cerca di fortuna, poveri e pronti a radicarsi laddove c'è lavoro. La cittadina tedesca sa trasformare anche lui, letterato sempre incapace di capire a fondo e di aderire appieno alla realtà, in un “homo economicus”. Là si produce ma non si crea, non si crea niente di vivo. Si campa. E nell'albergo, diretto dalla minuta Frau Muff, il narratore fa tutta una serie di incontri. Preparatevi a tanti “flash”, per dirla con Strati. Fermiamoci qui.
Romanzo breve di discreta letterarietà e grandi e irrisolte pretese, “Il ventre di Gravebürden” è comunque una stravaganza dignitosa, a dispetto della sua grande scompostezza, e in più d'un frangente s'intravede una personalità autoriale che forse non aveva il respiro da romanziere puro, ma da novelliere o da cantastorie ricercato sicuramente sì. Con un passato da poeta, magari, e grandi letture alle spalle. Scoprire, nel 2010, Persio Nesti significa restituire alla luce un letterato che potrebbe piacere a chi aveva amato la scrittura sconnessa, febbrile e malata di Dante Virgili, fatte le debite proporzioni: Nesti non si concede delirio politico, per esempio. E questo è un punto a suo favore. Questi suoi “appunti” sono un'esperienza emotivamente intensa, più onirica di quanto si potrebbe immaginare. È una chicca per lettori fortissimi, e letterati in cerca di figure veramente laterali, e profondamente rimosse.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Persio Nesti (Prato, 1909 – Castiglion Fiorentino, 1969), saggista e scrittore italiano, laureato in Lettere a Firenze con tesi in letteratura tedesca. Insegnò a Kiel e a Vienna, in Svizzera e in Germania.
Persio Nesti, “Il ventre di Gravebürden. Appunti sull'emigrazione”, Piano B, Prato 2010. Introduzione di Saverio Strati. A cura di Giovanni Pestelli. Collana “Controtempo”, 2.
Gianfranco Franchi, novembre 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.