Quindici anni per sempre. Intervista a Lino Centi

Quindici anni per sempre. Intervista a Lino Centi Book Cover Quindici anni per sempre. Intervista a Lino Centi
Lino Centi
Coniglio
2008
9788860631381

Siamo in un giardino di Monteverde Vecchio, quartiere degli artisti. Il destino disegna strane traiettorie: non devo neanche prendere la macchina per andare a intervistare il mio ospite. Capita di rado. È appena cominciato l’autunno, il cielo promette una pioggia che non vuole scendere. Silenzio spezzato da qualche cinguettio. Questo giardino di Roma è un altro mondo. L’architetto Lino Centi, artista di fama internazionale, fresco d’esordio in narrativa con “Quindici anni per sempre”, mi accoglie con gentilezza, sorridendo. Ci accomodiamo attorno a un tavolo, parliamo delle storie delle nostre famiglie, dell’origine del sangue. Tutti e due fumatori, un buon caffè per dare ritmo ai pensieri. Un sussurro di latte e miele, e avanti.

“Non ho mai amato il toscano” – esordisce lo scrittore. “Un mio buon amico mi ha detto, una volta, che ognuno conosce e capisce la volgarità delle lingue e degli accenti che conosce bene: solo di quelli che conosce molto bene. Secondo me ha ragione… quando dico che non ho mai amato il Toscano dico che non ho mai amato questo intercalare, tranne in una persona che… Rossana, Rossana Mannini. Una mia collega. Era… figlia, mi pare di ricordare, di un’austriaca e di un fiorentino. Questo suo sposare la fiorentinità, nell’accento e forse in altre cose, aveva prodotto un ibrido molto affascinante”.

OPERA PRIMA IN NARRATIVA… PRIMA IN ASSOLUTO?

“Ho scritto delle poesie, come tutti i liceali, ovviamente. Ho redatto una rivista, negli anni Settanta, per tre-quattro anni: si chiamava Techné. Il mio amore per la scrittura è antico. Ho pubblicato, tra le altre cose, un testo che trovo attualissimo in questo momento della mia vita… ne ho ripescato un verso nei miei "Quindici anni per sempre". Questo: ‘Avresti dovuto conoscermi a quindici anni: non ti sarei apparso neanche bello, tanto lo ero’. Nel romanzo appare scritto ‘tredici’ e non ‘quindici’”.

GENESI E IDEAZIONE DEL ROMANZO.

“Non sono sicuro di poter rispondere in modo pertinente a questa domanda, però ci posso provare. È nato – il fuoco si è acceso – la notte in cui ho inaugurato una mostra a Colombo, Sri Lanka, alla presenza dell’ambasciatore, come prassi in questi contesti esotico-estremi. Il nome del progetto era "La città celeste" ("The Heavenly City"). Attraverso Carlo Andrenelli, architetto romano, mio sodale, che vive a Sri Lanka da quindici anni, il diplomatico s’è proposto per inaugurare la mostra. Quella notte ero felice, ma insonne. Sono andato nel patio di Carlo Andrenelli, un patio particolare (sotto c’era un giardino) e oltre il giardino un ganga (“fiume”, in cingalese) e più avanti vera e propria giungla, si sentivano gli animali che si scannavano… eravamo in una periferia residenziale piuttosto lontana dal centro… e allora ho pensato che ricordavo tutto della mia infanzia. È stato un atto di grande ingenuità. Una cosa è ricordarsi la propria infanzia, una cosa è scriverne. Non credo che in quel momento fossi in grado di separare l’una e l’altra questione. Quando sono tornato, per la prima volta, ho preso al centro studi KOENING (che dirigo dal 1995) un piccolo computer che aveva abbandonato il mio predecessore. E ho cominciato a scrivere. La gestione è stata annosa… l’ho trascinato per tutto il mondo per estati e inverni, tra Bangkok (ultima revisione proprio all’Art Center, nei giorni d’una mostra) e l’America Latina… mi ricordo in particolare di averci lavorato molto a Città del Messico, in un piccolo appartamento che avevo affittato… mi svegliavo e mi mettevo a lavorare… è una città molto affascinante, a dispetto di quel che raccontano della sua pericolosità, sbagliando. Ho integrato molto questo lavoro con una documentazione che fortunosamente avevo conservato, come se pensassi da sempre di scriverci qualcosa: foto, lettere, appunti. In realtà, era già tutto là, andava organizzato. E per organizzarlo ci ho messo degli anni”.

QUALCHE NOTIZIA SULLA “CITTA’ CELESTE”.

“Era uno spazio nella galleria di un ex italiano (il trisavolo di Dominic Sansone è arrivato a Sri Lanka nel 1600: l’erede parla cingalese e inglese): l’unico di arte contemporanea a Colombo, oltre al Lionel Wendt. Includeva lavori 10 x 10 (è il mio formato prediletto dal 1984); è stata un’installazione piuttosto felice. Devo dire che ero a Sri Lanka anche per un altro motivo: si trattava di realizzare un mio 10 x 10 in un pavimento, facendolo diventare 4 metri x 4. Carlo Andrenelli aveva progettato l’edificio più importante di Colombo (L&M Centre) e mi aveva chiesto se potevo fare il pavimento davanti all’ascensore. L’opera si chiama Green Matrix. Considero il titolo un lavoro parallelo, questo vale anche in letteratura. Spesso lavoro più al titolo che al supporto… al pezzo stesso. Questa matrice verde, in una associazione involontaria, mi ricordava molto… un disegno che è sul pavimento del Centre… la cosa curiosa è che Andrenelli mi ha detto che, nonostante fosse un pavimento, la gente tende a scansarlo e punta gli ascensori, incuneandosi in una sorta di strettoia per non calpestarlo”.

A SRI LANKA…

“Ho passato un mese, a Sri Lanka, di irricercata castità. Il che non mi capita spesso. Però devo dire che la gente mi piaceva molto. Li trovavo molto affascinanti, ho imparato venti o trenta delle loro parole. È difficile rapportarsi con una popolazione con una disparità economica tanto accentuata. È complicato. Credo che Sri Lanka sia stato il posto dove ho più notato questo, l’impossibilità a relazionarsi agli altri… sei ricco, bianco, occidentale. Sei tenuto a distanza. Questo, forse, mi ha riportato all’infanzia. Una casualità, una pura casualità. La mia infanzia è stata povera. La mia mamma non era una pediatra. Provava a tamponare le falle di una famiglia che stava andando in rovina, quando mio padre aveva perso il lavoro…”

LINO CENTI E LA CASUALITA’.

“Io sono molto legato alla casualità. Mi è sembrato che il caso, sempre, fosse qualcosa di portante, nella mia vita. Di portante e di importante. Ti faccio un esempio. Avevo fatto un anno integrativo per potermi iscrivere a Lettere e Filosofia; ho fatto due o tre ore di fila per iscrivermi. Solo che ho sbagliato fila, e quando sono riuscito a terminarla a fatica, patendo i 35 gradi, davanti alla vetrata ho letto “Architettura”. Non volevo tornare in coda, e mi sono iscritto. I miei lavori plastici, ecco, sono costruiti secondo una casualità inseguita… che so: si rovescia il calamaio, viene fuori una macchia, e lavorando su questa ipotesi… quello è il principio di un lavoro”.

QUAL È STATO IL CALAMAIO DI “QUINDICI ANNI”?

“Credo che c’è stato un momento in cui, rispetto al mio passato… la mia storia mi ha fatto meno paura, o meno vergogna. Ho smesso di vergognarmi, perché un’infanzia povera è un’infanzia della quale ci si vergogna. E… sì, credo che sia successo qualcosa del genere”.

CENTI, I MACCHIAIOLI E TOZZI…

“I Macchiaioli sono stati un movimento molto interessante. Emilio Cecchi ha scritto un articolo affascinante e lucido che ho letto in inglese: The Picture European In Tuscany. E Fattori, Signorini, sono dei grandi artisti vissuti in periferia, nel senso artistico; ma sono sicuramente degli artisti di grande rilievo. Non mi sento un macchiaiolo, in ogni caso, per aver raccontato quella Toscana… sono troppo remoti per sentirmi uno di loro. Non mi sento nemmeno vicino a Federigo Tozzi, perché il mentore del mio romanzo – laureato proprio con una tesi su di lui – mi aveva consigliato di leggerlo, anni fa. Quando ho letto Tre croci mi sono molto annoiato, proprio come mi era accaduto con Manzoni e molti altri classici italiani”.

PUNTI DI RIFERIMENTO LETTERARI?

“Autori che ho amato molto… hai scritto che ho parlato meno degli italiani, in realtà ne ho nominati altri. Comunque… Un autore maledetto, che viene guardato con diffidenza ma considero geniale, è Tony Duvert, tradotto in Italia dalle edizioni La Rosa (forse filiazione Einaudi, non vorrei dire sciocchezze) e poi da ES. È un autore geniale, che se non si fosse occupato di argomenti così spinosi come la sessualità dei giovanissimi sarebbe stato Premio Nobel. In Francia è pubblicato da una grande casa editrice come le Editions de Minuit. Mi interessa il periodare, più che l’argomento; l’uso della lingua sperimentale, come in “Recidiva”; in altri, meno sperimentale ma estremamente creativo. Io sono un lettore infaticabile, prima di essere uno scrittore esordiente, e quello che ho scritto… la scrittura mi ha molto curato… è verissimo. La scrittura, e la pittura, sono qualcosa di estremamente curativo, l’una e l’altra, insieme o separatamente. Se non avessi avuto la possibilità di scrivere o di dipingere credo che oggi mi ritroverei in un ospedale psichiatrico. Dico credo, perché lo presumo, non lo so per certo. Sì, mi sono piaciuti anche i classici francesi: Maupassant, Flaubert… certamente Proust. L’apertura di All’ombra delle fanciulle in fiore è straordinaria, questa cosa che il protagonista è in un albergo e non riesce a capire dal chiarore se è la prima luce dell’alba o l’ultimo bagliore del cameriere che spenge le luci, e passa con la candela e… in questa divaricazione, in questa forbice, mi sono un po’ perso… non posso fare a meno di provare un brivido quando ne parlo. Ho vissuto una vita insonne. È difficile che mi addormenti prima dell’alba, estate o inverno. L’alba mi culla.

Ho lavorato fondamentalmente di notte, e corretto a volte di mattino, appena sveglio. Il corpus della mia opera è un lavoro notturno…”

CINEMA & LINO CENTI.

“C’è molto cinema, nel libro. Quando ero bambino, e adolescente, il cinema aveva una… più che un’attrazione, aveva un ascendente incredibilmente forte sulla mia psiche. Delle volte anche non gradevole, in alcuni casi: anche troppo forte. Con questo dico che sono assolutamente contrario al cinema vietato ai minori, perché nel momento che si vieta qualcosa a qualcuno si dà del minorato al minore, ed è un errore. Il cinema ha avuto sulla mia psiche un’intensità sbalorditiva. Nel titolare, ha dato derivazioni in pittura e in letteratura. Tieni conto che io ho creato intorno ai 2000 lavori: 2000 titoli diversi. Oltre la metà è in mano ai collezionisti”

LYOTARD E LINO CENTI

“Lyotard… è stato un grande amico. Un giorno l’ho lasciato al metro citè e lui mi ha detto che aveva deciso di scrivere dei miei lavori. Non sapevo come ringraziarlo, ma pensavo mi scrivesse una dedica di dieci righe. Al ritorno trovo un testo di cinque, sei pagine. Sono stato una settimana senza telefonargli, non sapevo come prendere questa cosa… sul serio (ride). Aveva scritto di altri artisti, celeberrimi, ricordo… stava lavorando, all’epoca, su un lungo testo che si chiamava Quoi peindre? (“Cosa dipingere?”). Poi aveva scritto di uno degli esponenti olandesi, del Cobra (Karel Appel) e aveva pubblicato La condizione postmoderna. Lo avevo conosciuto nel 19… in una situazione particolare. Tornavo dalle Canarie per ascoltare una sua conferenza nella facoltà di Architettura, la traduttrice aveva dato forfait, io mi ero offerto volontario per sostituirla e alla fine di questa traduzione simultanea lui mi aveva ringraziato e aveva passato con me il pomeriggio. Arrivammo in ritardo alla cena ufficiale.

Era venuto a casa mia a vedere i miei lavori e aveva passato così il pomeriggio, e senza dire nulla, niente, tutto il tempo. Questo sinché non m’ha detto “J’ai compris le secret”, ho capito il segreto. Ero molto felice… anche impaurito. Cosa significava? Dopo una pausa lunghissima ha aggiunto, guardando i quadri: ‘Non sono piccoli’, “Il ne sont pas petits”. Questa è una delle mie linee guida”.

E QUESTO LIBRO È COSI’?

“Me lo auguro… queste duecento pagine lasciano un segno. Credo sia diritto di ogni essere umano. È lo scopo di ogni essere umano, lasciare un segno”.

COSA SOGNI VENGA SCRITTO, DI QUESTO ROMANZO?

“C’è un pezzo a cui tengo molto, e avrei voluto fosse la quarta di copertina. Questo: “Sarà la mia prima vera nuotata. Riapprodati a riva sono del tutto gasato per l’essere riuscito a contenere il panico mentre mi agitavo nel mio stile ultralibero: insomma, mi sono appena tenuto a galla, nuotando alternativamente prono o di schiena (mentre appuravo che Nico fosse vicino). Pare proprio che il mio collaudo marino, anche per lui, abbia rappresentato una vittoriosa disfida; infatti mi invita, con un gesto eloquente del braccio, a camminare lungo la battigia che si stende a perdita d’occhio fino al lido di Torre del Lago. Nel corso di quella passeggiata sotto il sole calante mi pone una mano sulla spalla in modo risoluto ed emozionato. Nonostante io cammini nella zona rialzata dell’arenile, è decisamente più alto e il suo corpo scattante, insieme al passo sicuro, mi coinvolgono in una sensazione di straripante intangibilità: un sentimento di perfezione e di pienezza vitale che avevo avvertito poche volte e soltanto con Lalla. Al ritorno, davanti a un Wim ammirato, costruiremo un imponente castello di sabbia lasciato lì, nel crepuscolo, a sfidare l’eternità della notte”.

Tutti gli amici hanno comprato il libro, che è già in tutte le librerie, e la reazione è… un effetto sorpresa. Un effetto sorpresa, sì, è vero. Sorprendere ha almeno due significati: nel senso di qualcosa che improvvisamente appare, e anche dell’essere sorpresi in situazioni imbarazzanti. Qualcosa che ha a che fare con il divieto. Ieri mi ha mandato un messaggino quello che considero ed è il mio più vecchio amico, Ole-Hjordt Vetlesen, un filologo che ha lavorato alla risoluzione dell’enigma dell’alfabeto etrusco. Forse è per questo che da lì in avanti ha smesso di fare il filologo: non plus ultra.

L’unica vera tradizione danese, lo sapevi?, è quella linguistica. Le grammatiche di tanti Paesi sono state fatte dai danesi, in tempi non recenti. I danesi hanno una grande tradizione linguistica… capiscono perfettamente lo svedese, per esempio, ma non accade il contrario. Un po’ come accade tra portoghesi e spagnoli, per altri motivi. Vetlesen, comunque, nel messaggino mi diceva di aver ricevuto il libro: la lettura avrebbe avuto precedenza assoluta sugli arretrati. E… poi c’è quello che considero il mio fratello parigino, un egiziano ebreo che ha vissuto a Firenze, otto anni, ma è nella capitale dagli anni Ottanta, che lo sta leggendo da Lisbona, dove si trova per un servizio fotografico. Una persona molto curiosa… e sono incuriosito da cosa ne potrà pensare”.

DOPO “QUINDICI ANNI PER SEMPRE” COSA SCRIVERAI?

“Mi piacerebbe continuare, se ne avrò l’energia, questa sorta di mia autobiografia, perché sono convinto che il cosiddetto bello debba ancora arrivare. Almeno sul piano letterale, su quello stilistico non so, è tutto un altro discorso. La mia adolescenza è stata ancora più incuriosente della mia infanzia. Non so quando uscirà il prossimo libro, non oso fare nessuna previsione”.

RASSEGNA STAMPA: COM’E’ ANDATA FINORA?

“Sul Corrierino, supplemento fiorentino del Corsera, ha scritto un articolo una certa Debora… un articolo non lungo, ma ho capito che ne era stata sinceramente emozionata. Si intuiva. O almeno, credo, di averlo intuito. Il libro è stato distribuito tra gli addetti ai lavori, termine brutale ma necessario, solo da due settimane; quindi sono uscite pochissime cose, per adesso. Siamo in una fase di attesa. Aspetto, ad esempio, il giudizio di Gianni Vattimo, che ho conosciuto a Villa Marigola nel 1990: è un autore che mi piace, era molto amico di Lyotard: fu lui a presentarci a un convegno. Mi piacerebbe molto che il mio libro fosse tradotto in francese e spagnolo perché sono le mie altre lingue, sono due Paesi in cui ho tanti amici e questo… potrebbe aiutare la circolazione e la fortuna dell’opera”.

C’È UN’INFLUENZA ARCHITETTONICA NELLA TUA LETTERATURA?

“Sicuramente nel lavoro plastico, sì. Ed è fortissima. Quando si fanno 2000 finestrelle 10 x 10, (non sono piccole), e si ripete un modulo all’infinito, in un numero molto largo di copie, c’è dell’architettura. Non mi paragono a Brunelleschi, dico che c’è dell’architettura. Credo che da qualche parte ci sia anche in questo testo, nel quale però devo ammettere di essermi più preoccupato, su un piano temporale, della discontinuità… (ricomincio spesso in epoche in cui sono giovanissimo, parlando della normalità, del linguaggio apparso quando avevo due o tre anni…). Ci può essere un rispecchiamento nel fatto che nelle città… esistono vari mezzi di comunicazione che si incrociano ma non si scontrano. Senza elidersi. Vanno dalla linea della corrente a quella del telefono… questo forse è l’argomento che vive anche nel mio lavoro. La temperie sociale dell’epoca… sì, il clima del dopoguerra… e la sessualità dei ragazzi dell’epoca, che presumo non sia quella dei ragazzi attuali, o me lo auguro almeno… mi auguro non sia così infelice”.

EDIZIONI CONIGLIO. COME TI SEI TROVATO?

“La storia comincia molto prima. Una volta ultimato il lavoro, l’ho fatto leggere a Sergio Gifone, di Einaudi. Abbiamo cenato in questo ristorante a Centoia, fuori Firenze, e lui mi ha detto di mostrare il libro a Dalia Oggero che ha tenuto il mio lavoro fermo per un anno. Dopodiché, una missiva molto gentile, mi auguro non un prestampato, in cui mi spiegava che Einaudi aveva ritenuto di non pubblicare l’opera. Trovo sconvolgente che sia passato un anno… Quindi, ho capito che un esordiente (pure con pubblicazioni saggistiche prestigiose alle spalle), non poteva sperare di pubblicare con una casa editrice con una tradizione decennale. Attraverso amici o conoscenti, come Antonio Moresco, ho incontrato Antonio Veneziani e le Edizioni Coniglio. Mi sono parse… più giovani e più aperte rispetto ad altre. Si è creata una cosa curiosa con Repetti, per Stile Libero, una sera a cena con Antonio lui gli ha detto che il lavoro era interessante e allora Antonio mi ha detto ti strappiamo a Einaudi!

Devo dire che Antonio, nonostante il lavoro fosse stato più volte corretto da me medesimo, ha individuato due o tre punti problematici, cose… di poche righe, non di impianto… che ho rivisto assieme a lui: questo ha migliorato l’insieme, non c’è dubbio. Un’altra miglioria l’ha fatta un amico 35enne, Luca Baldoni, premio Camaiore per la Poesia, due anni fa, che mi ha sollecitato a togliere due o tre cose che avrei capito altrimenti solo io… c’era un momento in cui il protagonista si ritrova col suo compagno di banco nelle vigne, e… (pp. 102-103) fanno sesso. E allora citavo Nise da Silvera, la realizzatrice di quel bellissimo e poco visibile (difficile davvero raggiungerlo…) Museo dell’Incosciente di Rio De Janeiro. Io sono riuscito perché era aperto al Banco do Brasil, per una ricorrenza. Dimostra che i cosiddetti matti brasiliani hanno anticipato tutte le correnti dell’arte europea di alcuni anni.

E poi… devo dire una cosa. C’è stato un momento di grande difficoltà, Giovanni (Gianni per noi, suoi cari) Mari, filosofo di chiara fama, e Cristina Consalves Ribeiro mi hanno davvero accolto da questo naufragio. Loro mi hanno sostenuto e mi hanno presentato Andrea Borsari. Si sono fatti carico della mia… empasse. Ho capito – raro caso – cosa significhi la parola “amicizia”. Non è facile per me. Il rifiuto Einaudi è stato molto duro da digerire. Ti spiego. Sul piano plastico ho lavorato con la galleria più importante d’Europa… non sono abituato a certi rifiuti. La cosa mi ha molto ferito. Mi ha molto ferito. Ma adesso il libro vive”.

Il libro vive. Lino si accende un’altra sigaretta, guarda verso il cielo.

“C’è un capitolo in cui tratto non come un saggista, ma insomma, sì, ne parlo… della cosiddetta “normalità”. Una cosa che da bambino mi perseguitava, la “normalità”. È stata una persecuzione. Appena ho potuto, scrivendo saggi di design o architettura, ho provato a… forse avendo presente Goethe, quando dice “Anche l’innaturale è natura”… a tenerla, dicevo, come stella di navigazione”.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Lino Centi (Firenze, 19**), insegna Architettura all’Università di Firenze. Pittore, poeta e scrittore italiano.

Lino Centi, “Quindici anni per sempre”, Coniglio, Roma, 2008. Prefazione di Lara Vinca Masini: incentrata sulla sua produzione pittorica e sulla comparazione con quella letteraria.

Gianfranco Franchi, settembre 2008. Prima pubblicazione: Lankelot.

L’architetto Emanuele Milanini – si occupa di design e di web architecture – ci ha ospitato, gentilmente, nella sua casa monteverdina. Grazie ancora.