Rubbettino
1995
9788872840504
Nel sesto volume dell'opera omnia di Benjamin si trovano frammenti, scritti di carattere autobiografico e un'appendice; tra gli scritti, c'è questo diario italiano composto nel 1912: si tratta di testi inediti, scrive la traduttrice Lucia Petroni nella nota, spiegando che l'idiosincrasia dell'autore per la prima persona lo spinse a non pubblicare queste pagine. Sospetto ci fosse dell'altro; magari la coscienza che si trattava degli appunti di un ragazzino, decisamente acerbi nella maggioranza assoluta dei casi. La qualità letteraria di questi appunti è decisamente scadente, e l'opportunità della loro traduzione almeno discutibile, per non dire sospetta.
Il ventenne Benjamin, post maturità, prossimo a iscriversi alla facoltà di Filosofia di Friburgo, parte per l'estero con un gruppo di amici. Per la prima volta, ci informa la traduttrice, non è accompagnato dai genitori.
È un giovanotto consapevole della scolastica lezione del Viaggio di Goethe, sin dalla furbastra e presuntuosa premessa (“nel diario di viaggio che mi accingo a scrivere deve emergere ancora il viaggio”). L'abisso che separa questo studentello neodiplomato dai maestri (ma anche dai mestieranti) del grand tour è abnorme. Ingeneroso qualsiasi accostamento: glissiamo.
Secondo Eligio Resta, “Benjamin viaggia nei luoghi come nei percorsi delle intricate allegorie; non è come i viaggiatori che divorano curiosità, avidi di notizie, affamati di informazioni sui luoghi delle loro visite. Ma non è nemmeno come quei cronisti distaccati che osservano per riferire 'fatti'. (…) Il viaggio è narrazione perché è il luogo dove meglio si sedimentano memorie, sensazioni, anticipazioni del futuro” (p. 6). Pardon, professore: ma dire semplicemente che si tratta di un viaggiatore ragazzino, con tanto entusiasmo e tanta curiosità ma nessuna disciplina e nessun talento, è così assurdo? Dubito intacchi la fama dell'autore.
Mete principali del viaggio, Milano, Vicenza, Verona, Padova e Venezia. Si parte dal raduno della comitiva dei ragazzi, in Germania: Benjamin descrive l'ingenuità e l'euforia del gruppo, insistendo su dettagli minimi (valige, pranzo troppo costoso in stazione) che rivelano immediatamente tutta l'innocenza dei suoi vent'anni. La prima stravaganza la incrociamo al di là del Gottardo: il ragazzo è ammirato dal paesaggio, ma giudica un neo le scritte italiane sugli edifici (incomprensibili, annota, a parte la parola “ristorante”). Quando incontra monaci in preghiera in carne e ossa, è come se avesse visto un leone nella Leipzigstrasse: stupore e choc culturale. Prende subito confidenza con le nostre locande e i nostri baracchini: assieme ai compagni, viene “truffato” da chi pesa le ciliegie.
Lugano. Subito scrive le prime cartoline: il ragazzo ha voglia di comunicare agli adulti che è diventato grande. “Mai come in questo momento, dai tempi della mia maturità – scrive, come se fossero passati 20 anni e non pochi giorni – ho fatto esperienza così intensa dell'incredibile”. Incredibile? I monaci in preghiera? Le ciliegie pagate care? Siete fuori strada.
“Ovverosia che non sono più uno scolaro, che non devo dare più risposte, che il mio domani non è sottoposto a nessuno e che i miei pensieri non troveranno più alcuna forma né soddisfazione nei temi di scuola” (p. 27). Benjamin è ancora un bambino, non c'è niente da fare.
Lago Maggiore. Racconta di conversare febbrilmente di arte con i suoi compagni, ma non sappiamo cosa intendesse allora per arte né di quali opere stessero parlando; s'accenna solo a “gravissimi insulti verso la poesia moderna”. Poche righe dopo, si dichiara incuriosito dalle musiche e dai vestiti rossi e bianchi degli italiani.
Como. Descrive sommariamente il lago e il Duomo, ma intanto è affascinato dalla frequenza degli sputi dei cittadini locali: la maggior parte degli sputacchiatori fuma un orrendo tabacco. Come se non bastasse, in tram paga 20 centesimi più del dovuto.
Milano. Patita l'invadenza dei domestici d'albergo, giudica sensazionale il transeuropeismo della città. Visitato il Camposanto – pessimi e infantili i rilievi, ma glissiamo – e omaggiata la tomba di Manzoni, entrato e uscito dal Duomo (che emozione: non c'erano banchi), perde il portafogli e va a teatro.
“Se in una serata primaverile si decide a Milano di andare a teatro ciò non è affatto diverso che a Berlino” (p. 35), ci illumina. Ma da grande esteta qual era stronca “La Gloria” di D'Annunzio: non capisce bene la nostra lingua, ma riconosce delle recitazioni mimiche e delle ipotesi negli intermezzi. Curioso, eh?
Giorno dopo, veloce visita all'Accademia di Brera; Benjamin perde il bastone, si separa dai compagni e decide di andare da solo a Santa Maria delle Grazie. Stranamente, l'esteta che aveva criticato D'Annunzio non sa nemmeno decifrare le indicazioni stradali; riesce infine ad ammirare il capolavoro di Leonardo (30 secondi) e scappa. Tram, ma poi – mangiato vivo dall'ansia – scende e chiama un cocchio. Raggiunge gli amici in stazione, ma perde gli occhiali.
Verona. Un domestico dell'albergo - “talento dell'economia” - dice due parole in tedesco e convince l'astuto Benjamin ad alloggiare nella locanda, assieme ai suoi compagni. Percepisce qualcosa di strano, in stanza: nel dubbio, spruzza dappertutto insetticida. Il Corso, in città, è pieno di fannulloni; l'Arena, visitata al tramonto, è l'occasione per una meditazione profonda sulla capienza, e per l'acquisto di qualche cartolina.
La sera, un oste gli frega una lira sul conto; il giorno dopo, come previsto, quella volpe del giovane Benjamin e i suoi compagni si fanno grassare anche dall'albergatore e pagano una lira per il trasporto dei bagagli, rischiando una mezza rissa.
Vicenza. Pranzo: panino con burro di acciughe, pane e salame e caramelle. Tutto attorno, bambini mangiano le loro bucce di salame. Benjamin si accende una sigaretta e la lascia sulla panchina per godersi la zuffa di quei poverelli. Che anima gentile. Più tardi, spese quattro parole sul Palladio, si ritira a scrivere cartoline coi suoi compagni; piove.
Venezia. Perde gli amici e cade preda del panico. Si fa buio. Inseguito da monelli, dice loro “Niente” (niente cosa?), si ritrova la borsa presa a calci e se la dà a gambe. Gli amici, ovviamente, aspettavano di incontrarlo in un luogo poco noto: l'irraggiungibile Piazza San Marco. Il giorno dopo, sebbene stupito dagli ambulanti che vendono mangime per colombi, si gode la città; immancabile gondola (storpi e fannulloni in cerca di elemosina aiutano il giovane Benjamin a sbarcare), ammirazione per il Colleoni e a cena... spaghetti.
Mentre viaggia alla volta di Chioggia, incontra un operaio italiano “molto sveglio”: parla un po' di tedesco e conosce canzonette erotiche nella loro lingua. Sveglio, eh? Non si parla della guerra in Libia - “non mi riuscì di chiedergli qualcosa”, spiega l'arguto Benjamin – ma del carovita lagunare, dei bassi salari e dei duri orari di lavoro. Governo ladro! Giova segnalare al professor Resta che, rispetto alla sua introduzione (p. 6), c'è qualcosa che non quadra. Secondo Resta, Benjamin avrebbe interrogato lo sveglio operaio per parlare di guerra. Perplessità del lettore.
Ben e i suoi compari incontrano, a Chioggia, povertà e miseria. Ma a sera discutono d'arte: il giudizio sull'opera non è condizionato dal tempo, decidono; quello sull'autore sì. Negli anni, questi pensieri avranno adeguata evoluzione francofortese. Emozione.
Dopo una nuova lite con un gondoliere (tirchio, il giovanotto), rimane spazio per poche e non eccessivamente acute osservazioni sui monumenti e per il sintetico resoconto del ritorno in patria. È solo nelle vicinanze di Friburgo che sente nostalgia (“un po'”) per l'Italia. Qualche anno più tardi, ne avrebbe avuta anche per la sua giovinezza, e per questo diarietto romantico e decisamente privo di qualsiasi interesse letterario. Tecnicamente e concettualmente, “Il mio viaggio in Italia” è probabilmente il peggior grand tour della Letteratura Tedesca: ha valenza filologica, al limite, e senza dubbio involontariamente comica. Non a caso, Benjamin nascose a dovere il manoscritto senza mai meditarne la pubblicazione. Un pudore molto sensato, che sento di condividere.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Walter Benjamin (Charlottenburg, 1892 – Portbou, 1942), filosofo, traduttore e scrittore tedesco.
Walter Benjamin, “Il mio viaggio in Italia. Pentecoste 1912”, Rubbettino Editore, Messina 1995. Traduzione di Lucia A. Petroni. Introduzione di Eligio Resta. Include una nota del traduttore.
Prima edizione: Gesammelte Schriften, volume VI – Fragmente, autobiographische Schriften, 1989; a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhauser.
Gianfranco Franchi, febbraio 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.