Socrates
2007
9788872020319
Opera prima dell’antropologo e scrittore inglese Nigel Barley, classe 1947, “The Innocent Anthropologist: Notes From a Mud Hut” (1983), tradotto in Italia dalle Edizioni Socrates nei primi mesi del 2008, “Il giovane antropologo” è un libro a metà strada tra il romanzo di formazione e l’atipico diario di un giovane studioso impegnato nella sua iniziatica prima missione all’estero. Caratterizzato da una intelligente e dissacrante ironia, dal fascinoso intento di restituire tutti gli aspetti della cruda realtà di un viaggio come questo al centro dell’attenzione, demistificando l’aura di “sacralità e divino distacco” (p. 11) che avvolge gli antropologi, il libro è composto sia dalle memorie dell’incontro con la tribù camerunense dei Dowayo (nome che significa, curiosamente, “Nessuno”) sia da tutti quei dettagli che tendenzialmente troviamo solo accennati nelle opere di intellettuali e ricercatori come Margaret Mead e Claude Levi-Strauss. Si parte proprio dalla ricerca dei fondi e dalla perplessità dell’autore sul prossimo viaggio: viene da anni di biblioteca, non capisce se la prospettiva di una ricerca sul campo sia un obbligo o un privilegio; non sa davvero come affrontarla. Convinto che in antropologia non manchino affatto i dati, ma manchi spesso l’intelligenza per leggerli, scosso dalla solitudine e dalla frustrazione e dai vizi rivelati nei Diari dell’auctoritas Malinowski, s’appresta a partire e ad affrontare, periodicamente: abnorme e mostruosa burocrazia, malaria e infezioni di ogni genere, invasioni di pipistrelli e scorpioni, denutrizione e solitudine e noia, tragicomici guasti nella comunicazione (basta sbagliare tonalità, nel dialetto Dowayo, per ritrovarsi a parlare di sesso. Nei momenti meno propizi), viaggi per strade sterrate o binari malconci, magari su un treno italiano della Prima Guerra Mondiale (!), e via dicendo.
Barley spiega bene come si spenda il tempo durante queste ricerche: “Nel periodo che ho trascorso in Africa, ho calcolato di aver passato forse l’un per cento del tempo a fare ciò che veramente ero andato a fare. Il resto del tempo lo passai a organizzare, ad ammalarmi, a socializzare, a fare preparativi, ad andare da un posto all’altro e soprattutto ad aspettare. Avevo sfidato le divinità locali con la mia urgenza indisciplinata di fare qualcosa” (cap. 7, p. 110). Mostrando una franchezza e una chiarezza così nette, conquista e convince: aumenta la credibilità del suo reportage sui Dowayo, e ogni singola informazione sul loro conto è come illuminata dalla consapevolezza dei sacrifici e degli sforzi affrontati dal ricercatore. E così, sarà davvero difficile non memorizzare gli appunti dell’antropologo sul culto dei teschi della tribù, ad esempio, o sulla leggenda dell’adozione della circoncisione; massacrato da tasse, dazi e vessazioni nei vari uffici dell’ex colonia tedesca, inglese e francese, regolarmente umiliato da tassisti e doganieri, ambulanti e burocrati, il giovane antropologo è un campione di umanità autentica e coraggiosa.
Destinato a venire incontro a quei lettori che si sono sempre domandati cosa significasse affrontare un viaggio del genere, e a chi crede ancora che la rivalità tra missionari e ricercatori universitari, nelle ex colonie, sia drammatica e fondata sugli antichi pregiudizi (cfr. p. 33), questo libro sa commuovere e divertire chi sta per tornare o per partire alla volta di tribù o popolazioni in difficoltà: assieme, demistifica e svela i retroscena che nessuno sembrava voler raccontare, per ragioni incomprensibili. Scoprendo quali siano gli animali più temuti dai Dowayo (i gufi!), quale la funzione dei tribunali (intrattenere la tribù) e delle elezioni (votare l’unico candidato dell’unico partito), quale la speciale dieta (miglio, miglio e miglio) e la differenza tra Dowayo di montagna (più ostili?) e di pianura, ci accorgiamo di quale sia il costo umano di questo tipo di ricerche. Anni di vita dedicati ad aggiungere qualche capitolo alle conoscenze su piccole tribù: patendo e rischiando, in primis l’equilibrio nervoso.
La ricerca è una missione. Leggerne non è soltanto divertente: è formativo. Altrettanto formativo e sicuramente triste, per noi italiani, è accorgersi che l’ultimo capitolo è dedicato a una tribù che ben conosciamo; quella dei nostri concittadini capitolini che tendono a sfruttare e saccheggiare i turisti della Città Eterna. I veri Dowayo, tutto a un tratto, sembrano essere i padroni dell’albergo che rifiutano ogni responsabilità sul furto di denari e documenti nella camera del ricercatore; e la triste processione di denunce, per commissariati e ambasciate, è accompagnata dall’osservazione sul campo del malessere e dell’incredulità di quei cittadini inglesi che hanno visto rovinata la loro vacanza da ladruncoli. A sentire Nigel Barley sembra sia prassi.
Ecco, mi sembra giusto segnalare che l’umiliazione del lettore è grande; quando si legge della fiducia con cui lo studioso riparte per l’Europa, convinto di ritrovare comfort e sicurezza e igiene, ci si ritrova ad appurare che l’ultimo lembo di Africa Nera è proprio la nostra Italia. Ce n’è di strada da fare, la civiltà è una conquista continua. E la ricerca non conosce fine.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Nigel Barley (Kingston-on-Thames, Inghilterra, 1947), antropologo e romanziere inglese. Si è diplomato in lingue moderne a Cambridge e ha conseguito un dottorato in antropologia a Oxford. Tra 1981 e 2003 è stato nell’equipe di ricercatori del dipartimento di Etnografia del British Museum di Londra.
Nigel Barley, “Il giovane antropologo”, Edizioni Socrates, Roma 2008. Traduzione di Paolo Brama e Francesca Sabani.
Prima edizione: “The Innocent Anthropologist: Notes From a Mud Hut”, 1983.
Gianfranco Franchi, aprile 2008.
Prima pubblicazione: Lankelot.