Acciaio

Acciaio Book Cover Acciaio
Silvia Avallone
Rizzoli
2010
9788817037631

"Acciaio" (Rizzoli, 360 pp., euro 18) è un romanzo di formazione popolare, non populista, e operaista: ma onestamente deideologizzato. È ambientato a Piombino, nella gioventù proletaria nostra contemporanea; esiste per raccontare in letteratura ciò che rimane della vecchia classe operaia. È tinto dell'energia, dell'immediatezza e della suprema onestà di un esordiente, classe 1984, che scrivendo non risponde agli ordini di un partito, o di un movimento; è stato scritto perché Silvia Avallone aveva vissuto nella cittadina toscana abbastanza per interiorizzare e decifrare comportamenti, estetica e visione del mondo del suo popolo. È un romanzo popolare, in questo senso neo-morantiano; più vicino alla lezione dell'"Isola di Arturo", per sensibilità e grazia, che a quella della "Storia". Dimenticatevi la descrizione rabbiosa e ultramarxista dei "Minatori della Maremma" di Carlo Cassola e del giovanissimo Luciano Bianciardi: i personaggi di "Acciaio" hanno imparato a prendere le distanze dalle demagogie figlie del dogma e dalle sempiterne promesse rivoluzionarie. Esistono e domandano giustizia, diritti, rispetto; esistono ribadendo quel diritto alla ricerca della felicità, e dell'affermazione di sé, che nessuna propaganda sa addomesticare, e nessuna ideologia sa addormentare. Esistono per rubare tempo e gioia ai ritmi assurdi della nostra società, per allevare un futuro solare e migliore, per vivere un presente estraneo alle sofferenze dei cittadini lavoratori che giuravamo sconfitte post rivoluzione industriale. Amano, tradiscono, s'allontanano, si ritrovano; vivono.

Qualche settimana fa, senza ancora aver letto il libro, siamo andati ad ascoltare e osservare la giovane artista, nel corso della sua prima presentazione romana. Sapevamo che aveva saputo parlare al cuore di tanti lettori, con naturalezza, semplicità e spontaneità; sapevamo che veniva dalla poesia. Abbiamo incontrato una ragazzona con una forte personalità, capace di parlare di fronte a un folto pubblico – molto più folto del consueto, per una presentazione libraria: buon segno – con determinazione e vero trasporto; abbiamo incontrato una giovane scrittrice innamorata della letteratura e convinta dell'onestà e della bontà della sua ispirazione, abbiamo incontrato un'artista consapevole di aver dato vita a un libro che andava scritto. Una che non si stupiva di avere di fronte tante lettrici e tanti lettori che avevano già letto e amato il suo romanzo, perché era come se "Acciaio" fosse stato predestinato a questo. Quel che più ci ha impressionato è stata la sua gioiosa dedizione ai suoi personaggi: il suo totale abbandono a tutte quelle diverse identità, visioni politiche, approcci esistenziali. Che significa, come ben sappiamo, un bel rifiuto dei pregiudizi e del politicamente corretto. Insomma, Silvia Avallone ha dimostrato di non avere paura di niente e di non appartenere a nessuno che non sia un suo personaggio. Affascinante.

Torniamo al romanzo. "Acciaio" si concentra, in prima battuta, sull'adolescenza: sull'amicizia adolescenziale di due amiche, Francesca e Anna, la bionda e la mora, nemmeno quattordici anni. L'adolescenza, sussurra l'autrice, è un'età potenziale: e così queste due ragazzotte "diverse ma uguali", "perché siamo nate insieme, abitiamo insieme, moriremo insieme e faremo tutte le cose insieme", la vivono con tutta l'incoscienza, la sofferenza e l'euforia della loro età. Sono figlie della Piombino povera, quella dei palazzi d'una via dal sinistro nome di Stalingrado. Una via che "per chi non ci viveva, vista da fuori, era desolante. Di più: era la miseria". Una via fatta di case costruite dall'edilizia popolare nel dopoguerra, con tanto di vista sul mare. Meglio sul mare che sulla spiaggia, considerando che la sabbia è sporcata dalla ruggine e dalle immondizie, in messo ci passano gli scarichi, e a stendercisi sopra sono soltanto "delinquenti e poveri cristi delle case popolari". Anna e Francesca sanno fregarsene, preferendo fantasticare, sapendo accontentarsi. Quando entrano in acqua fanno impressione, perché nuotano parallele fino all'ultima boa. Sognano di arrivare fino all'Elba, nuotando, e di non tornare più. Stanno per scoprire un sacco di cose, della vita. Stanno per scoprire l'amore, stanno per scoprire il dolore delle repressioni famigliari, stanno per scoprire i piccoli disastri figli dell'esibizionismo incauto di chi deve ancora imparare quali sono i giusti limiti – i propri limiti. Stanno per cominciare a capire le vite dei loro padri. I loro padri sono Enrico e Arturo. Enrico lavora alla Lucchini da un pezzo. È uno che sin da ragazzo ha saputo scolpirsi i muscoli lavorando la terra. "Si era fatto un gigante nei campi di pomodori, e poi spalando carbon coke. Un uomo qualunque, emigrato dalla campagna in città con uno zaino in spalla". Ha dita tozze, rosse e callose. Le dita – scrive, magnifica, la Avallone – "di un operaio che non usa i guanti, neppure quando deve misurare la temperatura della ghisa". Le dita di uno che sa forgiare l'acciaio. Ma è violento. Arturo è un emigrato meridionale, uno che non ha mai amato i sacrifici; ha sempre preferito fosse sua moglie a lavorare. È stato un sacco di cose diverse, borseggiatore, operaio di qua e di là, caporeparto. Disprezza gli iscritti alla FIOM e sa che lavorare stanca. Scialacqua quei pochi soldi che ha in tasca con una facilità imbarazzante. Spesso prende e scompare per un pezzo. Dice d'essere diventato un mercante d'arte. Enrico è un padre aggressivo; Arturo un padre troppo assente. Questo l'imprint paterno delle due ragazzine.

Anna e Francesca sembrano più serene vicino alle loro madri; soprattutto la mamma di Anna è una figura interessante. Lavora tanto ma ha ancora tanta sensibilità politica; è di sinistra, legge quotidiani ("Repubblica", "Liberazione") e invita la figlia a studiare, magari per diventare un bel giorno deputato. È una che ha sempre saputo decidere e scegliere da che parte stare, puntando chi sentiva fosse più vicino alla difesa dei suoi diritti e di quelli dei lavoratori; soltanto, non ha mai saputo cacciare via suo marito, nell'amore è stata ed è rimasta debole.

Anna e Francesca scoprono il sesso prima con la tenerezza di due amiche, poi con i ragazzi della loro cittadina. Sono tutti operai, qualcuno ha già qualche ombra di troppo sul groppone. Sono tutti ragazzi che hanno buoni sentimenti e tanta voglia di divertirsi, per riscattare le troppe ore passate in acciaieria, a massacrarsi tra ghisa e carbone, rischiando la vita – vedendo qualcuno morire. Sono ragazzi che, come Alessio, hanno già imparato a diffidare dalla propaganda unta e falsa di certi partiti; vogliono semplicemente che i loro diritti siano riconosciuti, vogliono semplicemente potersi costruire un futuro in pace. Loro sono la Toscana che sarà facile conquistare, quella che non ha più bisogno d'essere indottrinata dai vecchi cattivi maestri, né domanda maestri nuovi: ha la forza d'essere libera, autonoma e fiera di sè stessa.

"Acciaio" è un'iniezione di piccole grandi verità. La giovanissima età dell'autrice (classe 1984) ci convince che pronosticarle un bel futuro è facile. Partendo da questo primo passo, si può arrivare, un bel giorno, a scrivere un romanzo che sappia essere per la letteratura ciò che "Novecento" di Bertolucci è stato per il cinema. Ma senza bandiere rosse e senza leziosismi ideologici: con poesia, con dolcezza, con verità. Con naturalezza.

BREVI NOTE

Silvia Avallone (Biella, 1984), scrittrice italiana, laureata in Filosofia. Vive a Bologna. Ha pubblicato, prima di questo romanzo, poesie nel “Libro dei vent'anni” (Edizioni della Meridiana, 2007) e collaborato con “Nuovi Argomenti”.

Silvia Avallone, “Acciaio”, Rizzoli, Milano 2010.

Gianfranco Franchi, aprile 2010

Prima pubblicazione cartacea dell'articolo: Il Secolo d'Italia, 13 aprile 2010. A ruota, Lankelot.