PTM
2005
9788887393200
“Penso che il sardo e la sua terra siano un unico elemento che non potrà mai essere separato da nessuno, questo si capisce specialmente stando lontano dalla propria terra, come è capitato a me. Anche se ho avuto la possibilità di visitare tutto il mondo non cambierei mai la Sardegna con nessun altro posto perchè quello che ha saputo darmi la mia terra non si può comprare. Chi si trova lontano da essa può capire bene di cosa parlo” (Pisu, p. 123)
Questo libro, prima di tutto, è questo: un atto d'amore d'un sardo nei confronti dei sardi. Pisu non è uno storico, non è un archeologo e non è un letterato: è un comandante di navi, classe 1972; è un giovanotto che mostra grande orgoglio per l'appartenza alla sua isola, e sogna che le misteriose origini del suo popolo vengano finalmente rivelate. È convinto – convinzione romantica ma non ancora storica – che gli antichi Shardana, uno dei “popoli del mare”, fossero proprio i Sardi: e vuole dimostrare che dall'incontro tra la civiltà nuragica, che lui sospetta già navigatrice, e quella Shardana, è derivato un periodo di grande floridità e potere per l'isola. Un'isola che sembra raccontare come fosse una nazione (e pardon per l'anacronismo: è per intenderci), indipendente e – a quanto pare – imperialista. Imperialista o almeno fortemente legata alla cultura del commercio. Perché? Forse perché Pisu è stanco di sentire associare alla civiltà nuragica soltanto agricoltori e allevatori, ritiene non ragionevole l'ipotesi e vuole, come ogni patriota, che la storia del suo popolo sia vera, equilibrata, condivisa da tutti – soprattutto, che non sia romanizzata.
“Il sardo – scrive – fa parte di un popolo che ha una sua lingua, una sua terra e una sua cultura e non per questo si sente isolato dagli altri, ma anzi, è onorato di fare parte di una comunità sempre più vasta in modo da poter esportare la propria cultura, far conoscere la propria storia e le proprie tradizioni oltre i confini della sua Isola. In passato lo ha fatto con gli Shardana e noi dobbiamo continuare a farlo oggi” (p. 124). Gli Shardana, quindi, servono come esempio, come fondazione di “neo-tradizione”. In questo senso, ben vengano. La questione è che, per come è strutturato il libro, questa rimane un'opera di fanta-archeologia e di arte della navigazione di Gian Giacomo Pisu; “I porti nuragici e Shardana” si fonda su un presupposto fascinoso e del tutto nuovo... “Il nome 'Mare Nostrum', dato dai romani, viene dopo quello più antico di 'Mare Sardo'. Nome non dato a caso ma solo perché era un mare sotto lo stretto controllo della marineria Sarda” (Premessa, p. 7).
Il problema è scoprire quale fonte ha consultato il Pisu per affermare una cosa del genere: il “Mare Internum” o “Nostrum” è attestato dalle fonti; l'etimo greco o albanese di “Mare Ionio” si direbbe pacifico; il guasto – per il momento – è che non ho trovato tracce della dicitura “Mare Sardo” precedenti o sostitutive del mare “Nostrum”. Poddighe, studioso di Sardegna citato da Pisu, riferisce che Eratostene, nel “Geographica”, diceva: “è tutto mare sardo da lì dove l'Oceano esce e all'interno, da Libia a Europa attorno fino all'Isola di Sardegna” (p. 46). Accontentiamoci.
Assieme, Pisu ritiene che l'archeologia non sia una scienza destinata a fornire dati alla storia, ma “un ramo” della storia stessa. Questa è una posizione molto personale e come tale va accettata; soltanto, ecco, inevitabilmente inficia la credibilità del suo lavoro. Più avanti, sostiene che un anonimo luminare dell'archeologia “ha affermato che le coste sarde, per la loro conformazione, si prestavano male alle attività marinare, da allora il capitolo relativo alla marineria sarda nuragica è stato chiuso” (p. 9). In questo frangente, sarebbe fondamentale scoprire il nome di questo anonimo ma influente luminare, per poterne valutare le abnormi influenze sulla ricerca scientifica. Pisu, in ogni caso, sostiene di analizzare “in modo imparziale e con metodo scientifico” una parte della storia della Sardegna che purtroppo “è stata abbandonata dal mondo archeologico per svariati motivi o per legami ad idee appartenenti ad una determinata casta di archeologi” (p. 10).
Si profila, quindi, un cupo complotto archeologico; purtroppo, è difficile decifrare correttamente nomi e cognomi dei responsabili. Quindi, il libro si fonda sulle “conoscenze marinare dei nostri progenitori”, perché Pisu è convinto che “il popolo Nuragico e Shardana aveva cognizioni scientifiche e tecnologiche tali da permettergli di progettare rifugi sicuri per le proprie navi” (p. 11). In generale, nel corso dell'opera Pisu tende a non nominare le fonti: ad esempio, nel primo capitolo, asserisce che “dagli storici e dagli archeologici sappiamo che buona parte dei porti sardi furono costruiti su rovine di vecchi porti risalenti all'età nuragica” (p. 12). Può essere: ma quali sono questi storici e questi archeologi? Tutti eccetto quelli che nomina nel libro? Facile, così.
Detto ciò, da qui in avanti glisso sugli aspetti scientifici per godermi appieno le congetture, le fantasie e le ipotesi di questo narratore sardo. Pisu racconta che molti porti si trovavano, strategicamente, nei pressi delle saline; il sale era grande merce di scambio, utile per la conservazione di carne e pesce. Questi porti divennero centri commerciali, col passare del tempo, edificati in prossimità di zone minerarie, agricole e di controllo militare del mare (p. 13). I nuraghi servivano “con scopi marittimi, di segnalamento” (p. 13); in generale, avevano funzioni diverse in base alla zona di edificazione. L'etimo proposto da Danilo Scintu nel suo “Torri del cielo” è *Nur - *Hag = Torre di Fuoco. Pisu è convinto che ciò possa significare “Torre di Luce”, ossia “Faro”. Ipotesi molto romantica e fascinosa.
I Sardi immaginati da Pisu non hanno lasciato relitti perché, a differenza dei Romani, sapevano navigare (p. 14): “l'enorme quantità di relitti romani dimostra la loro scarsa dimestichezza con il mare, chi sa navigre incorre molto meno nel pericolo di naufregare”, scrive. Quindi, ecco dimostrato come si possa, dall'assenza di dati, trarre una conclusione del tutto arbitraria. Si sfiora, ammettiamolo, la genialità. Come quando si asserisce che i Sardi esportavano ossidiano nel Mediterraneo 5000 o 6000 anni avanti Cristo: qual è la fonte attendibile relativa al commercio isolano nel 6000 a.C.? Mistero.
Pisu scrive che i porti che consideriamo Punici o Fenici sono stati edificati sulle basi di vecchi porti risalenti al periodo nuragico (p. 43): ipotesi affascinante, suffragata dalle foto di strutture sommerse nei porti di Nora e Tharros, curate dal CNR (p. 88). Speriamo che nuovi studi facciano emergere del tutto la verità.
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Ho letto questo libro da innamorato dell'orgoglio e dell'identità del popolo sardo, fiducioso che la verità sui nuraghe e sulla loro civiltà possa, un giorno, brillare di luce propria, senza più letteratura. Avrei apprezzato la possibilità di leggerlo non solo da fan della cultura sarda, ma da letterato – con l'animo sereno di chi non deve irritarsi per i giochetti etimologici su Osiride. In ogni caso, Shardana o Sardi, viva voi. E grazie ai miei fratelli di Sassari per questo gradito dono.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Gian Giacomo Pisu (1972), comandante di navi passeggeri. Vive a Baunei, nell'Ogliastra. Ha pubblicato anche “La Flotta Shardana”.
Gian Giacomo Pisu, “I porti nuragici e Shardana. Strategia portuale, meteorologia, storia, tecnica e i relitti”, PTM Editrice, Mogoro, 2005.
Gianfranco Franchi, novembre 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.