Piano B Edizioni
2010
9788896665145
Scritti laterali e minori di Robert Louis Stevenson: selezionati con personalità e con una certa disinvoltura, puntando in particolare a restituire ai lettori italiani tre saggetti sin qui mai tradotti dalle nostre parti, divertissement o esercizi di stile di discreto livello. Questo è “La filosofia dell'ombrello” (Piano B, 2010), sintetica panoramica della letteratura “altra” del padre di romanzi come “L'isola del tesoro” o “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”: un'antologia di chicche e di rarità. Si va dall'omaggio leziosetto agli amati cani (“The Character of Dogs”) alla ludica meditazione giovanile eponima (“The Philosophy of Umbrellas”), dal piacevole e sempre giovanile scritto sul rapporto tra vecchie e nuove generazioni (“Crabbed Age and Youth”) al manierismo sulla conversazione (“Talk and Talkers”). Un buon saggio introduttivo ci avrebbe spiegato perché sono stati scelti proprio quegli articoli, da chi, con quale intento e sulla base di quali convinzioni estetiche o filologiche, per smitizzare chissà quale luogo comune oppure – congetturo – per rappresentare tutto un altro Stevenson rispetto alla vulgata: invece il lettore si ritrova direttamente a contatto con le pagine di Stevenson, come se lo scrittore fosse perfettamente contemporaneo e assolutamente tra noi e ben presente a tutti, e insomma – lo strappo si avverte, è un po' eccessivo, e questo è onestamente un peccato.
Qualche nota sui tre migliori saggetti inclusi nel libro. “La filosofia degli ombrelli” è un articolo scritto da uno Stevenson studente universitario per la rivista della sua facoltà, l'Edinburgh University Magazine. È una satira strampalata, uno schiaffetto alla cultura degli status symbol. Lo scrittore scozzese gioca a inventare un sistema in cui l'ombrello è diventato “l'indice riconosciuto della posizione sociale”, perché il suo “insito simbolismo s'è sviluppato nel modo più naturale”. Sfoggiarlo è simbolo di rispettabilità. A questo punto serve un acuto ermeneuta di ombrelli per interpretare le differenze tra uno e un altro individuo. Inevitabile.
L'incipit dell'edizione, “An Apology for Idlers”, vale a dire “Una difesa dei pigri”, è sicuramente il miglior risultato della raccolta. Originariamente apparso nella rivista “Cornhill Magazine” nel luglio 1877, nel volume “Virginibus Puerisque” nel 1881, è uno scritto che uno come Jerome non poteva che amare: il padre degli “Idle Thoughts of an Idle Fellow” (1886) si sarà divertito leggendo che “la gente, in gioventù, dovrebbe abbandonarsi alla pigrizia”: secondo Stevenson, per capirci, “l'attività frenetica, che sia a scuola o all'università, in chiesa o al mercato, è sintomo di mancanza di vitalità; mentre il saper oziare implica un appetito universale e un forte senso d'identità personale” (p. 15). E addirittura basta fermarsi a riflettere con imparzialità sulla natura di certi ruoli “saggi e virtuosi” per accorgersi che sono considerati, tendenzialmente, espressioni della pigrizia.
Stevenson considera Atlante “un gentiluomo in preda a un incubo duraturo”, perché nessuno è indispensabile, e nessuno è insostituibile. Saggio non dimenticarsene. La pigrizia è santa, e più ancora quando essa è latrice di felicità o di serenità. La ragione è semplice: “meglio incontrare un uomo o una donna felice piuttosto che una banconota da cinque sterline. Lui o lei sono fuochi che irradiano benessere; il loro ingresso in una stanza sembra accendere una candela in più. Non c'è bisogno che sappiano dimostrare il quarantasettesimo teorema; essi fanno di meglio, dimostrano nella pratica il grande Teorema della Vivibilità della Vita” (p. 19). Insomma, il futuro Tusitala rivendica l'assoluta bontà della scelta di vita di chi si dedica non al “non far nulla”, ma al fare quel che la classe dirigente non riconosce come lavoro produttivo. E difende quella scelta di vita. La difende non soltanto quando essa coincide con la consacrazione allo studio, o alle arti: la difende quando essa rappresenta la scoperta di tanti aspetti della realtà e dell'interazione con il prossimo, magari marinando la scuola. Per dire.
Insomma. Avete presente quel momento della vostra giovinezza in cui avete deciso che la vostra scelta di vita (letteraria) aveva senso, nonostante fosse economicamente un disastro e razionalmente qualcosa di increscioso, dal punto di vista borghese? In quel momento, parlavate (parlavamo) con l'entusiasmo cristallino del grande scrittore scozzese, ribadendo che il nostro mondo e le nostre scelte avevano senso e importanza almeno quanto quelle dei futuri avvocati, dei futuri contabili, dei futuri medici e via dicendo. E ci piaceva credere in cose come queste: “L'attività frenetica, che sia a scuola o all'università, in chiesa o al mercato, è sintomo di mancanza di vitalità; mentre il saper oziare implica un appetito universale e un forte senso d'identità personale”. I nostri rivali ci apparivano come automi. “Incapaci di abbandonarsi all'ozio, la loro natura non è generosa abbastanza; e passano in una specie di coma le ore che non dedicano alla frenetica smania di arricchirsi”. Quanto ci sentivamo superiori, dal punto di vista etico. Era la prima epifania dell'orgoglio della nostra diversità. Della nostra fame di semplicità. Di ricerca del vero.
Ricordate quel momento della giovinezza in cui avete deciso quale strada prendere, e andando incontro a che cosa? Ecco. Stevenson è uno che non poteva non essere d'accordo col vostro allegro suicidio. Decidete in coscienza se chiamarlo illuminato o fulminato. In coscienza, ho detto.
Più avanti, in “Vecchiaia scorbutica e gioventù” (1878), meditando sulle distanze tra le due fasi della vita, lo scrittore ricorda che “tutti gli errori, non solamente quelli verbali, sono un modo deciso di affermare che la verità è incompleta”: un uomo capisce di aver fatto la scelta sbagliata in tutte le tappe passate del suo cammino, solo per trarre la sconcertante conclusione che, alla fine, è stato sempre nel giusto. No?
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Robert Louis Balfour Stevenson (Edimburgo, Scozia, 1850 – Samoa, 1894), romanziere e saggista scozzese.
Robert Louis Stevenson, “La filosofia dell'ombrello”, Piano B, Prato 2010. Traduzioni di Silvia Franceschetti e Antonio Tozzi.
Prime edizioni: “An Apology for Idlers”, nella rivista “Cornhill Magazine” nel luglio 1877, nel volume “Virginibus Puerisque” nel 1881. “The Character of Dogs” nella rivista “The English Illustrated Magazine” nel maggio 1883, nel volume “Memories and Portraits” nel 1887. “The Philosophy of Umbrellas”, scritto per l'Edinburgh University Magazine nel 1871, apparso postumo.
“Crabbed Age and Youth” nella rivista “Cornhill Magazine” nel marzo 1878, nel volume “Virginibus Puerisque” nel 1881. “On the Enjoyment of Unpleasant Places” nella rivista “Portfolio” nel novembre 1874; quindi, postumo,nel volume “Miscellanies” del 1896.
“Talk and Talkers” nella rivista “Cornhill Magazine”, aprile e agosto 1882; nel volume “Memories and Portraits” nel 1887. “Pulvis et Umbra” nella rivista “Scribner's Magazine”, aprile 1888; nel volume “Across the Plains” nel 1892.
Gianfranco Franchi, novembre 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
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