Adelphi
1991
9788845908040
“La nube purpurea” di Shiel è un’opera letteraria seducente e appassionante. È senza dubbio opera dalle atmosfere fantasiose e sulfuree, e divagazione tetra sulla natura dell’essere umano e sulle contraddizioni che lo compongono; è, al pari ad esempio del “Signore delle Mosche” di Golding, una riflessione sulla violenza, sulla fragilità delle difese della logica, non appena a questa venga opposto l’istinto o il lamento rabbioso dei desideri; è una contemplazione furiosa, infine, della solitudine, e rappresenta un ambizioso progetto di espressione solipsistica. Romanzo dunque dalle considerevoli stratificazioni semantiche, leggibile, ad un primo e più elementare livello, come la narrazione di un viaggio nel segno dell’umana hybris, non più oltre le superate e vilipese colonne di Gibilterra, ma alla volta dell’estremo margine del Polo Nord; viaggio in cui il protagonista, Adam, narratore in prima persona delle sue memorie, si trova prima ad essere fortunosamente eletto a far parte della compagnia, e in cui quindi scopre, nell’atmosfera acre e surreale del gelo polare, la sua natura ferina e omicida: ucciderà, immemore della pietà e della logica, assecondando un innominato demone interiore, che lo trascinerà, unico del gruppo, sino all’estremo limite del polo. Che questo estremo limite del polo possa essere l’estremo limite dell’animo umano è forse sin troppo pacifico dedurlo.
Una volta superata la concorrenza dei suoi compagni di viaggio, e raggiunta come per incanto la più lontana profondità del polo, assiste ad una scena che lo paralizza dallo sgomento: appare una sorta di lago, con un nome illeggibile iscritto, e l’atmosfera che pervade la scena è così spaventosa e le sensazioni che il nostro avverte così agghiaccianti (sia lecito il gioco di parole), che subito fugge, percependo delle esalazioni innaturali provenire dall’insano specchio d’acqua e osservando strane macchie cromatiche nel cielo, desiderando ritornare alla volta della base. Le sue scorte paiono essere prossime ad esaurirsi, ed è costretto ad uccidere gli ultimi cani della sua muta pur di raggiungere l’imbarcazione. Adam non sa che sta uccidendo quelle che saranno le ultime creature viventi che incontrerà per venti anni. Si affretta a tornare, dunque, già pregustando la ricompensa e gli onori che al suo ritorno in patria riceverà per aver raggiunto il polo; e tutto quel che incontra, sulla sua strada, è morte, e morte orribile. Orsi, cani, pesci, dapprima; e, quindi, l’intero equipaggio della nave, cristallizzato in un ultimo gesto di disperazione come gli abitanti di Pompei.
Navigherà, scoprendo imbarcazioni fantasma, orfane di equipaggio, irrimediabilmente condannate ad una rotta inconcludente e destinata al naufragio; città e villaggi deserti, e vegetazione che si appresta a riconquistare la terra sottratta dall’atroce presunzione umana, e macchine che immobili giacciono e tacciono. Attraverserà, sempre più disperato e convinto della sua totale solitudine, per venti anni l’intero pianeta; dopo qualche tempo, prenderà a bruciare e a sconsacrare intere città, farneticando a volte, e altre volte sublimando la sua maledizione nella fondazione di templi e palazzi. Quel che non distruggerà con le sue mani provvederà a distruggere la natura: e scoprirà, dunque, che se Bordeaux brucia per via dell’esplosivo che lui stesso ha innescato, tutta l’Italia meridionale è stata inghiottita dal mare; si troverà, ultimo della specie, ad aver il privilegio della visione della distruzione di quello che doveva essere il giardino dell’uomo, ed era divenuto la dorata gabbia delle sue ambizioni. Voci e presagi e visioni attraverseranno il suo cammino: despota di un mondo senza abitanti, unico signore e unico dominatore e unico abitante di tutto ciò che era la terra, poco a poco, negli anni, si abituerà a questa solitudine, a questa imperfetta esistenza di sogno. Se Adamo era il primo uomo, Adamo sarà l’ultimo a popolare il mondo. Una punizione solenne, dall’atmosfera prossima a quella della “Ballata del vecchio Marinaio” di Coleridge; e tuttavia più drammatica, perché se allora la navigazione procedeva, spettrale e desolante, sino alla sparizione dell’equipaggio fantasma una volta toccata terra, costringendo il Marinaio a raccontare a ciascun individuo la sua storia, qui Adam non ha alcuna possibilità di avere un contatto con l’esterno: le uniche voci che ascolta sono quelle della sua mente.
Adam è un predestinato. È un viaggiatore della psiche; un argonauta instancabile e maledetto. E questa maledizione parrà definitiva e insolubile, sin quando…a questo punto il mio compito di narrare la vicenda si interrompe, e starà al lettore scoprire l’esito insolito ed eccelso della parabola di Adam.
Personaggio totalmente e graniticamente letterario, è introdotto nella narrazione dallo Shiel per via di una macchinosa e sofisticata architettura: nelle prime pagine, infatti, scopriamo come le sue avventure,o le sue memorie, ad esser più corretti, siano state trascritte da una medium nel corso di una trance ipnotica; in uno dei quattro quaderni che un amico spedisce all’editore del libro, infatti, sono stati trascritti gli eventi discussi.
Vediamo di tradurre semplicemente la struttura del romanzo: il narratore primo riceve un blocco di appunti da un amico, gravemente malato. Si tratta di quattro quaderni, dove stenografati appaiono i resoconti di sedute ipnotiche. Ad essere ipnotizzata è una donna, che sembra in grado di poter frantumare la linearità del tempo e di poter dialogare con anime perdute nel passato e nel futuro. Il testo del terzo quaderno viene interpretato e redatto dal narratore primo; la sua è una funzione esclusivamente filologica. Il narratore secondo è il protagonista stesso, Adam, in prima persona, e il romanzo è dunque il racconto dei fatti incredibili della sua esistenza.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Matthew Phipps Shiel (Montserrat, 1865 – Chichester, 1947) fu Re, col nome di Felipe I, di Santa Maria della Redonda, isoletta larga poco più di un miglio, nei Caraibi; letterato atipico, fu salutato in vita dall’ammirazione incondizionata dei critici e degli artisti di maggior talento, e trascurato indecorosamente dal pubblico. Una produzione, la sua, almeno a dar retta a Wilcock nella prefazione di questo romanzo, sterminata; produzione ancora priva di traduzioni significative e di divulgazione nel nostro paese, che pur si pregia, per grazia dei soliti impagabili difensori dell’arte letteraria della casa editrice Adelphi, di presentare al lettore la “Nube purpurea”. Attendiamo dunque, con fiducia e malcelata curiosità, di poter leggere quanto promesso dal Wilcock nelle pagine introduttive, per stupirci dello stile, della fantasia, del dono della preveggenza che pare il destino avesse accordato a questo artista di origine irlandese e acquisita stravagante dignità aristocratica, a questo precursore di quel filone di “fantascienza esistenzialista” che frutti così preziosi saprà offrire nel corso nel novecento, per merito del già trattato Sturgeon, di Philip K Dick, di Aldriss, per limitarci ai primi nomi che arrembano nella memoria. L’edizione a mia disposizione, come appena accennato, è corredata da un breve saggio di Wilcock, che, nonostante un inizio piuttosto cervellotico, si rivela poi fascinosa e densa di suggestioni e interpretazioni di sicura pregnanza. L’opera è consigliata a tutti: l’eccentrico e bizzarro signore di Redonda è un letterato puro, la sua musa misteriosa e accattivante, il suo stile fluido ed elegante: sa essere piacevolmente grottesco, mirabilmente estremo, d’improvviso quasi lirico.
Matthew Phipps Shiel, “La nube purpurea”, Adelphi, Milano, 1967. Traduzione e prefazione di Rodolfo Wilcock.
È egualmente reperibile un’edizione Mondadori, datata 1975: sarà un’infausta coincidenza, ma entrambe le mie vecchie copie Mondadori, rilevate ad anni di distanza, hanno manifestato la sgradevole tendenza a sgretolarsi, suddividendosi in riottosi fascicoli. Mondadori risparmia? Il lettore si rivolge, senza indugiare, ad Adelphi. Con grande soddisfazione.
Gianfranco Franchi, marzo 2002.
Prima pubblicazione: ciao.com. A ruota, Lankelot.