Fazi
2010
9788864111087
Domando comprensione e domando perdono: ma pretendo rispetto. Perché sto per parlare di un libro che oltraggia Trieste, l'Italia e gli italiani, e leggerlo è stato degradante e irritante oltre ogni dire. La mia famiglia è giuliana e ho sangue istriano e triestino. I libri di Pahor riaprono antiche ferite e spesso riescono a squarciarle. Sanguinano come un tempo, più di un tempo: perché non abbiamo avuto giustizia, noi giuliani. E questi romanzi politici slavi degli anni Sessanta, retrogradi, sporchi e velenosi, macchiano la nostra storia e la nostra identità. Relazionarmi con una letteratura nazionalista e revanscista come quella slovena è – in circostanze come “Qui è proibito parlare” – eccezionalmente complesso e odioso. Egualmente provo e mi confronto con un'ondata di menzogne e di propaganda che non meritavano un editore come Fazi. Lo stupore è straordinario, almeno quanto il risentimento.
Il genocidio culturale – è bene ribadirlo – è stato ed è subito dagli italiani nelle loro case e nelle loro terre in Istria, a Fiume, a Zara e in Dalmazia. È un genocidio culturale che s'è accompagnato, in questo caso sì davvero, alla pulizia etnica (foibe!), e troppo pochi rivendicano la verità e difendono la nostra causa. Chi difende le sofferenze slovene di 70 o 60 anni fa dovrebbe, per giustizia e per buonsenso, difendere le nostre che durano da oltre 60 anni e non hanno paladini diversi dai discendenti degli esuli, e da qualche coraggioso e onesto studioso di Storia. Ecco, agli editori italiani e ai letterati italiani dico di dare ascolto agli esuli e ai loro nipoti, non solo alla voce delle minoranze etniche carsoline. Ne abbiamo – perdonate il francesismo – i coglioni pieni, di questo piagnisteo del Narodni Dom. Nessuno lo nega: ma in molti negano la nostra storia, e la nostra essenza. E nessuno ricorda perché si badava a insegnare la nostra lingua a questi nostri ospiti, settanta e ottant'anni fa: proprio per rimarcare che non avremmo mai consegnato le nostre terre e la nostra cultura nelle loro mani. Mai.
Fazi ha pubblicato – nella guida ai toponimi, in appendice – una pagina di menzogne come questa: “Nel periodo cui fa riferimento il testo tutti i toponimi erano stati italianizzati, perciò di seguito se ne fornisce un elenco”. L'elenco include CAPODISTRIA (l'etimo è latino: “Capris”. E la storia è romana e veneziana, per lo più) e Maresego; tra le varie amenità, comprende tutte le seconde denominazioni slovene delle località italiane. Questa è un'infamia. Giova ricordare ai tipi di Fazi che il suo pubblico non è socialista jugoslavo o neonato democratico sloveno. “Santa Croce”, “Sveti kriz”: siete ridicoli. Se volete fare l'Europa, sappiate che non si fa un'Unione Europea con le menzogne partigiane, e col revanscismo slavo. Si fa rivendicando giustizia.
Finiamola. Adesso basta. Trieste e l'Istria sono più italiane per ogni patetica pagina di questo libro. Pahor è – in questo frangente, dispiace dirlo – il nemico dentro casa. Non c'è nessun intento di pacificazione: questo libro è un oltraggio, un monumento alla resistenza jugoslava in Italia (!). Apparato dei “toponimi” incluso. Buona lettura – per così dire.
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Trieste, anni Trenta. L'Austria è caduta da una manciata d'anni e l'anima italiana della città, euforica e prepotente di gioia, rivendica la sua essenza dopo secoli d'appartenenza a un impero amato, ma considerato straniero. Una delle principali comunità minori della città, un tempo florido porto commerciale e autentico crogiolo di razze, si sente schiacciata dall'italianità sbandierata e imposta nelle scuole e nei commerci; l'antica tolleranza multietnica austriaca è sparita, l'Italia gradisce che i cittadini non italiani assimilino la nostra cultura e parlino la nostra lingua; non intende accettare proteste.
Questa comunità minore, quella slovena, è composta da un popolo giovane che non ha mai conosciuto indipendenza e autonomia, nella sua storia, e va scoprendo d'avere avuto una letteratura – e di qualità: il poeta Kosovel – negli ultimi anni. Questa comunità non sembra poter avanzare pretese di nessun genere sulla città, perché Trieste storicamente è stata culturalmente italiana ed etnicamente sempre a maggioranza assoluta italiana; la comunità slovena chiede soltanto d'essere tollerata e integrata senza dover rinunciare alla propria lingua. Pahor interpreta questo periodo storico raccontando la storia della giovane Ema, una cittadina slovena proveniente dal Carso: sta cercando lavoro in città, consapevole dell'ostilità e dei guasti che il nuovo regime significa e implica per la sua comunità. È domestica, ma sogna l'impiego in un ufficio, e intanto si ritrova a dare manforte ai futuri partigiani slavi. “Il socialismo porterà la democrazia nel mondo” (p. 219), annunciano i prossimi, liberali fiancheggiatori degli assassini comunisti, sovietici e titini. Capaci di rappresaglie violente, qui rivendicate (pp. 235-236) con orgoglio. O di goliardate come scrivere, nella loro lingua, “Duce ti vogliamo tra noi”: al cimitero. Grande buon gusto.
Pahor è equilibrato? La risposta è no, non del tutto, in questo frangente; spesso, no nella maniera più assoluta. È un propagandista sleale e fazioso, che distorce regolarmente la realtà. Qualche esempio, prima di argomentare. Il più grave: “la maschera di italianità che a Trieste indossava chiunque aspirasse al successo dei propri affari e alla carriera” (pp. 16-17). Concetto curioso, considerando che questa “maschera” equivaleva, sotto Trieste austriaca, al 75 percento della città (5 percento tedesco, 20 sloveno). “Maschera”. Prestate attenzione a queste bassezze. Una maschera. Ahi, ahi. Che darei perché tu non fossi un vecchio, Boris. Che darei. Uomo a uomo. Uno contro uno.
Nessuno nega il benessere conosciuto, per secoli, sotto l'Austria; nessuno nega, al contempo, l'adesione naturale, culturale e ideale all'Italia. Pahor, e i suoi simili, sì. A partire dalla toponomastica. Evidenzio qualche bassezza, che nell'apparato di note è spacciata per “nome proprio dell'epoca”.
Piazza Unità si chiama ancora Piazza Grande, nella narrativa slovena-triestina-parigina di Pahor: come a significare che questa “Unità d'Italia” non ha nessun senso e nessuna ragione di esistere, per la minoranza slovena. Un po' di storia per il socialista Pahor. “Si chiamava inizialmente Piazza San Pietro, dal nome di una chiesetta ivi esistente, poi Piazza Grande, nome con il quale i triestini tuttora la identificano. Assunse il nome di Piazza Unità dopo il 1918, quando la città fu annessa al Regno d'Italia; nel 1955, allorché la città ritornò all'Italia con la dissoluzione del territorio libero di Trieste, prese la denominazione attuale”.
Il Molo Audace? Si chiama ancora San Carlo. Un piccolo ripasso a beneficio sempre del signor Pahor: fonte, wikipedia. “Nel 1740 affondò nel porto di Trieste, vicino alla riva, la nave San Carlo. Invece di rimuovere il relitto, si decise di utilizzarlo come base per la costruzione di un nuovo molo, che venne costruito tra il 1743 ed il 1751 e fu intitolato appunto a San Carlo. Allora il molo era più corto di come si presenta oggi; misurava infatti solamente 95 metri di lunghezza ed era unito a terra tramite un piccolo ponte di legno. Nella seconda metà del 1700 venne allungato di 19 metri e nel 1860 di altri 132 metri, raggiungendo così l’attuale lunghezza di 246 metri. Anche il ponte venne eliminato, congiungendo il molo direttamente alla terraferma.
Al molo san Carlo attraccavano sia navi passeggeri che navi mercantili, con gran movimento di persone e di merci. Il 3 novembre del 1918, alla fine della prima guerra mondiale, la prima nave della Marina Italiana ad entrare nel porto di Trieste e ad attraccare al molo San Carlo fu l’Audace (la cui ancora è esposta alla base del Faro della Vittoria). In ricordo di questo avvenimento venne cambiato nome al molo, chiamandolo appunto Molo Audace, ed all’estremità del molo stesso venne eretta una rosa dei venti in bronzo, con al centro una epigrafe, sorretta da una colonna in pietra bianca”.
Vi state orientando? Questa di Pahor è nomenclatura faziosa, partigiana, politica e nazionalista. Fate molta attenzione, perché qualche editore italiano sta dando retta alle sua visione della storia, e della realtà, acriticamente. Da come riconosce i triestini? Dalla scorretta pronuncia dell'italiano; gli sloveni, a differenza loro, sanno parlarlo senza inflessioni dialettali (p. 42).
Non basta. Cos'è Trieste? “Un polipo gigante che spreme dalla gente slovena i succhi sani” (p. 54), “una ferita purulenta” (p. 179), “un porto che avvizzisce come una verruca” (p. 40). E il titolo italiano su un libro sloveno? “Come il marchio sulla pelle di uno schiavo, sulla sua carne viva” (p. 71).
D'Annunzio, che forse non rimarrà alla storia come letterato ma senza dubbio come coraggioso liberatore della città di Fiume – impresa nobile che nessuno deve azzardarsi più a sporcare – è il demonio (p. 62): “Il viso col pizzetto, il cranio pelato e il naso aquilino; aggiungendo corna e zoccoli, è così che nei secoli precedenti sarebbe stato rappresentato il demonio. Alle lezioni di storia aveva dovuto studiare l'impresa di Fiume compiuta da D'Annunzio assieme ai suoi legionari” (p. 62).
Torniamo alla trama. Gli sloveni sono “miti e obbedienti” (p. 76) per via del secolare addestramento all'obbedienza austriaco (non italiano: tenetelo a mente, tenetelo bene a mente); si riuniscono in Chiesa o al Circolo. Ema soffre “il giudizio degli occhi invisibili” (p. 37) spogliandosi in un camerino. Non trova pace. Si accompagna a uno sloveno ribelle, Danilo, che dà delle “carogne” agli italiani perché a Trieste non circolano i loro giornali, “Jutro” e “Slovenec” (p. 151). Non è un miracolo che i due sloveni si siano incontrati a Trieste, spiega Pahor, perché “loro affluiscono dal Carso nella città ad alimentarla”, come fossero acqua (p. 162). “Affluiscono”. Meditate. Giudicano Garibaldi un modello di lotta contro gli italiani (p. 188): avete correttamente inteso. E sognano la circolazione della loro letteratura, casa per casa, tra gli sloveni. Questa è l'unica questione che appoggio. Profondamente. Il resto, mi dà nausea.
Trieste, città martire, mutilata dall'infamia e dalla barbarie comunista e jugoslava, col beneplacito dei “liberatori” e del nostro sconfitto governo, del suo entroterra – l'Istria – nel secondo dopoguerra, è oggi vittima delle calunnie, della propaganda e dei piagnistei d'una letteratura nazionalista, revanscista e aggressiva, pericolosamente pubblicata da un editore di buona fama e spesso interiorizzata da cittadini impreparati come fosse un libro di storia. È estremamente grave quello che sta succedendo: un autore che in patria vende 5000 copie (fonte: Corsera del 28 febbraio), tecnicamente di una bravura indiscutibile (ecco il danno), in Italia propaganda la visione ingiusta e mendace d'una minoranza slovena protagonista della storia e della vita culturale triestina. Eroicamente resistente, a difesa della propria identità. Per l'ultima volta ammonisco i lettori della gravità della situazione e della sua pericolosità. Questa è distorsione assoluta dei fatti. Assoluta, funzionale, opportunista e malvagia.
Nella bandella, un redattore di Fazi ha parlato di “pulizia etnica” nei confronti degli sloveni, in atto negli anni Trenta a Trieste. Spero che l'oscuro bandellaro abbia tempo per studiare un po' di storia, e per documentarsi sull'unica, autentica pulizia etnica avvenuta fino agli anni Novanta: quella della comunità italiana in Istria, Fiume e Dalmazia. Almeno tra italiani cerchiamo di rispettare la storia, e di non infangare i nostri concittadini. Le nostre responsabilità nei confronti degli sloveni, sotto il regime fascista, sono limpide: mai negate, mai oscurate. Ma quella condotta, ormai sarà chiaro a tutti, non era immotivata o insensata. Proprio no. Sbagliata, ma non immotivata. Tramutare questa nostra condotta in “pulizia etnica” è diffamare lo Stato Italiano, e compromettere la verità storica. Si parli piuttosto di cosa è avvenuto perché uno Stato inesistente – la Jugoslavia – vivesse; di quanto è costato a 300mila nostri compatrioti, e ai loro eredi. Quello, autentico genocidio culturale; le foibe, pulizia etnica. Ribadisco: studio, e cautela.
Servire il nemico non ha senso: sostenerlo, a meno di non aver previsto una robusta serie di pubblicazioni finalmente equilibrate e veridiche, non è solo sbagliato: è cattivo. Se solo Pahor non fosse uno scrittore quasi centenario, sarebbe divertente ascoltare il suo parere in merito a questo suo “Parnik trobi nji” del 1963, e all'opportunità di pubblicarlo in Italia nel 2009. A cosa serve, a renderlo più gradito in patria, lui socialista ma anti-titino? Io non mi presto, come letterato e come intellettuale, a questo sporco gioco politico. Vergogna.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Boris Pahor (Triest, 1913), letterato sloveno, triestino. Laureato in Lettere presso l’Università di Padova, insegnò nelle scuole medie superiori slovene di Trieste. Vice-presidente dell’Associazione Internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate. Autore di romanzi e novelle, saggista, è direttore di “Zaliv” (“Il golfo”, rivista che si è battuta per la democrazia in Slovenia e per l’affermazione dell’identità slovena.
Boris Pahor, “Qui è proibito parlare”, Fazi, Roma 2009. Traduzione di Martina Clerici.
Prima edizione: “Parnik trobi nji”, 1963 – dice il colophon.
“Onkraj pekla so ljudje” (”There Are People Beyond Hell”, 1961) mia congettura.
Gianfranco Franchi, febbraio 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot..