Elliot
2015
9788861928510
“Ho spesso pensato che proprio da questo allenamento dei miei giorni da vagabondo arriva il mio successo come autore di racconti. Per poter ottenere il cibo che mi faceva sopravvivere, ero costretto a raccontare storie che suonassero vere. È davanti alla porta sul retro che si sviluppa la capacità, prodotta da un'implacabile necessità, di essere convincente e sincero (…). Sono anche convinto che sia stato il mio apprendistato da vagabondo ad avermi fatto diventare realista. Il realismo costituisce l'unico bene di scambio davanti alla porta della cucina in cambio di cibo” (London, “La strada”; p. 23).
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Davide Sapienza restituisce un altro grande frammento dell'opera omnia di Jack London: “La strada”. Completa di un inedito e di altri tre scritti minori, ma niente affatto marginali. Spiega l'artista lombardo, unico padre di questa edizione: “Non è un romanzo, bensì la raccolta di nove articoli apparsi su 'Cosmopolitan' tra il 1906 e il 1907. Jack decise di farli uscire in volume e nell'ordine di pubblicazione (e non in unica sequenza cronologica da collezionisti di francobolli, che aveva portato a edizioni precedenti con i capitoli in ordine errato), perché così si usava fare allora e perché parlare di hobo, senzatetto, barboni, diseredati, vagabondi, vale a dire degli umani di scarto, era cosa alla quale London teneva molto” (p. 7).
Era un periodo in cui gli hobo e i vagabondi non erano l'argomento preferito dalla stampa statunitense, come sanno tutti quelli che hanno letto almeno “Non c'è scampo” (“You can't win”) di Jack Black (1926: dico, 1926). Pubblicando queste storie, l'altro Jack, vent'anni prima, e cinquant'anni abbondanti prima di Kerouac, raccontava tutto il fascino della vita sulla strada. E tutta la sua orgogliosa appartenenza, a quella strada. “Probabilmente la più grande attrattiva della vita da vagabondo è l'assenza di monotonia. La vita a Vagabonlandia è proteiforme come una fantasmagoria, dove l'impossibile accade e dove ad ogni curva ti salta fuori l'imprevisto dai cespugli. Un hobo non sa mai cosa succederà un minuto dopo, per cui vive solo l'attimo presente. Egli ha appreso la futilità dello sforzo telico e conosce la gioia che procura il lasciarsi portare alla deriva dai capricci del Caso” (p. 53).
Hobo. Nel gergo statunitense, inizialmente significava “operaio disoccupato”. Quindi, proprio alla fine del diciannovesimo secolo, passò a significare i vagabondi che attraversavano, clandestini, la loro nazione sui treni merci. Sui treni merci la vita non era facile: “Se escludiamo gli incidenti, un bravo hobo giovane e agile riesce a nascondersi su un treno a dispetto di ogni sforzo fatto dal personale ferroviario per affossarlo – naturalmente la condizione essenziale è che sia notte. (…). Per il personale ferroviario, se si esclude l'omicidio, non esiste un sistema legittimo per affossarlo” (p. 33). “Affossare” significa buttare giù dal treno. Non doveva essere simpatico.
“Hobo” era anche l'area della prigione riservata ai criminali comuni. Era una gabbia d'acciaio. Si chiamava così proprio perché tendenzialmente ci finivano dentro loro, i vagabondi per eccellenza.
Durante i suoi viaggi, London incontrò centinaia di hobo. Con loro ci si salutava, si stava in attesa dalle parti delle cisterne d'acqua, si cuoceva qualcosa, si battevano le strade o i privati, per chiedere qualcosa da mangiare. Ognuno aveva un soprannome. A volte derivava dal vecchio mestiere, a volte dalla località di provenienza, a volte dalla razza, a volte da qualche animale. Stando con loro e vivendo come loro London ha imparato una gran cosa. “Carità non è dare un osso al cane. Carità è condividere l'osso con il cane quando tu hai fame quanto il cane” (p. 19).
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La vita a Vagabonlandia può essere difficile, sulle prime. È facile sembrare dei “gay cat”, dei gattini allegri: pivellotti. Ci si deve abituare a tutta una serie di problemi, di guasti, di pericoli. Il primo pericolo sono i poliziotti, gli sbirri. Perché esistono, in un certo senso, come parassiti dei vagabondi: il loro lavoro dipende dalla loro fortuna, e dal loro numero. London racconta che suo padre era stato, tra le altre cose, un poliziotto cacciatore di vagabondi, in gioventù; e che all'epoca lui s'entusiasmava ascoltando certi racconti. Quanti ne hai catturati, oggi? E andiamo. Cose del genere. La prospettiva poi era cambiata, trovandosi a vivere tra di loro. Aveva assunto tutt'altro colore.
Poteva capitare di finire in galera, nel “pen”, il penitenziario. A London è successo. “Il lavoro era pesante e, nonostante marcassi visita ad ogni occasione, ero sfinito. Era colpa del cibo. Nessuno poteva fare un lavoro pesante con una dieta del genere. Pane e acqua era tutto quello che ci veniva dato. Una volta a settimana c'era la carne; ma la carne non arrivava sempre e dato che tutto il nutrimento veniva bollito via per fare la zuppa, non importava veramente se si riusciva ad assaggiarla una volta a settimana” (p. 83). Il caffè non era nient'altro che acqua colorata. Il processo ai vagabondi era una farsa. Non c'era alternativa e non c'era soluzione. Si doveva regalare un pezzo della propria vita allo Stato per aver deciso, o per essersi ritrovati, a vivere da clandestini, americani meno americani degli altri, inchiodati sulla strada, nel sogno impossibile d'un treno senza pericoli.
“Diventai vagabondo, beh, a causa della vita che era in me, della bramosia di viaggiare che avevo nel sangue e che non mi concedeva di stare fermo. La sociologia è stata una scusa, è venuta dopo, allo stesso modo in cui ti trovi la pelle bagnata dopo un'immersione. Io andai sulla strada perché non potevo starci lontano; perché in tasca non avevo i soldi per il biglietto del treno; perché ero fatto in maniera tale da non poter lavorare tutta la vita allo stesso turno; perché, beh, ma semplicemente perché era più facile che non farlo” (p. 119). Tutto qui, a quanto pare. Semplice, no?
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Veniamo al “Diario del vagabondo” (1894). Sapienza: “Per la prima volta in Italia presentiamo l'inedito 'Il diario del vagabondo'. Il ragazzo lo scrisse durante i mesi di vagabondaggi nella primavera del 1894 – in uno dei periodi di maggiore crisi e recessione della storia americana. In queste journal entries vita, avventura e letteratura si fondono in un orizzonte unico che si dispiega in maniera ancor più sorprendente se sovrapposto come una cartina al tornasole ai nove scritti che compongono La strada” (p. 9). Sono appunti, frammenti diaristici, scritti con lo stile caratteristico – nervoso, frenetico, singultico – di questo genere di scrittura. Si rivelano una veridica e seducente conferma alle storie di “The Road”.
Ecco “Il vagabondo” (1901). Sapienza: “saggio di cruda e violenta potenza, schiaffo alle certezze dei libri di Storia e alle fandonie quotidiane che ci raccontiamo parlando di lavoro, povertà, e diritti umani”. London è convinto che il vagabondo sia l'espressione di una società ingiusta e della sua incapacità di garantire un adeguato numero di posti di lavoro: più ancora, che il vagabondo sia un capro espiatorio della “nostra colpa economico industriale e della pianificazione di ogni cosa. È fatto così. La società lo ha creato. Il vagabondo non si è fatto da solo” (p. 221).
E ora scopriamo, sinteticamente, “Come sono diventato socialista” (1903), apparso nella raccolta “War of the Classes” nel 1905. Si tratta di una pagina scritta a cuore aperto da un London in vena di rinnegare il suo originario, prepotente e ultraletterario individualismo, in cerca di un senso per quella che si direbbe proprio una conversione – completa di rinuncia alla morale borghese.
Infine, ecco “La Principessa” (1916). Sapienza: “Lungo racconto scritto meno di due mesi prima di morire. London ha quarant'anni e torna un'ultima volta a Vagabonlandia ma sceglie la via onirica, allucinata e surreale. Non è azzardato affiancare queste visioni a quelle de 'Il Rosso', scritto cinque mesi prima. Due vicende bizzarre che sembrano anche risentire della quantità di medicine che Jack prende per curare i vari malanni che lo affliggono nel corpo e nello spirito – e che lo inducono a visioni macabre ma piene di carità. Quasi tutti gli scritti degli ultimi mesi sono intrisi di un senso finale che preclude a nuovi orizzonti”.
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La prima volta che ho letto un libro di London curato da Sapienza, qualche anno fa, ero rimasto euforico e affascinato per l'esperienza estetica, felicemente disorientante e innovativa. Non potevo nemmeno immaginarmi di poter avere il privilegio di vederne nascere uno nuovo. È accaduto, è stato grande, e direi addirittura educativo. Non me l'aspettavo.
Per capire veramente quanto profondi e drammatici siano, storicamente, i contrasti e le contraddizioni degli States, e quanto inquietanti e poco romantiche siano le condizioni di vita dei loro cittadini emarginati, serve guardare molto più in là del presente – di questo presente ferito da una nuova crisi economica. E per accorgersi che Kerouac non viene dal niente, ma al limite va ad attingere a una tradizione perfettamente esistente e ben distante dalle sue allucinate ed alcoliche prose letterarie, si deve puntare qui. Si deve andare al principio della strada. Un gran principio, fascinoso, ribelle, non conforme, ultralibertario. Come Jack.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Jack London (San Francisco, 1876 – Glen Ellen, California, 1916) scrittore americano.
Jack London, “La strada. Diari di un vagabondo”, Castelvecchi Roma 2010. Traduzione e cura di Davide Sapienza. L'edizione Castelvecchi include “The Road” (1907), “The Tramp Diary” (1894), “The Tramp” (1901), “How I Became a Socialist” (1903), “The Princess” (1916).
Gianfranco Franchi, gennaio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.