TEA
2004
9788850205929
“(…) Il senso di questa nobile pesca catch and release è l’assenza totale dell’aspetto utilitaristico. Si va a pesca perché calma e rilassa. Pescare è un gioco sottile, una nobile arte. Il parallelo mi fa pensare a Ernst Jünger, il quale, in uno dei suoi diari di guerra, scrisse che non ci si deve dispiacere di un pensiero che c’è sfuggito. È come un pesce che, guizzando, si stacca dall’amo e torna a nuotare negli abissi; un giorno, quando sarà diventato più grosso, abboccherà di nuovo…Se invece si trascina a riva il pesce e lo si sventra, gettandolo infine in un secchio di plastica, allora gli s’impedisce di svilupparsi. E lo stesso può dirsi dell’idea per un romanzo nel momento in cui la si trascrive, fissandola in una forma più o meno riuscita, per non parlare di quando la si dà alle stampe. Forse il mondo culturale è caratterizzato da troppo catch e da poco release” (p. 57).
Questo romanzo è il grande tributo dello scrittore norvegese Jostein Gaarder al mondo della letteratura e dell’editoria: è un’intelligente e atipica riflessione sul senso e sul significato della creazione artistica e al contempo costituisce una provocatoria e divertente polemica sulla competizione e sulla rivalità che – a volte – soffoca e acceca i letterati. Limitarsi, tuttavia, a evidenziare questi due argomenti significa negare le altre due colonne portanti del testo: la narrazione d’una stravagante e splendida storia d’amore, e il progressivo e doloroso cammino di ricerca del narratore nei meandri della propria memoria, alla ricerca dell’origine della sua peculiare sensibilità e della sua non comune forma mentis.
Il lettore dovrà ammettere, sin dalle primissime battute, d’avere a che fare con un narratore che può – a seconda delle prospettive – essere salutato come eccezionalmente onesto, o come campione d’ambiguità. Ecco quel che scrive: “Ho deciso che racconterò tutto. Scrivo per capire me stesso, e scriverò con la maggiore sincerità possibile. Ciò non significa che io sia affidabile. Colui che spaccia per veritiere le cose che scrive sulla sua stessa vita di norma si è già ribaltato prima ancora di aver intrapreso una navigazione così azzardata” (p. 12). E scoprire che il narratore è l’eroe eponimo del romanzo, questo venditore di storie che origina e alimenta creazioni letterarie e cinematografiche in tutta Europa preferendo rimanere nell’ombra – stipendiato dai (non sempre) riconoscenti autori “sostenuti” – non può consolare. Il lettore si sta rapportando con un autentico campione della menzogna; che menzogne e contraddizioni si divertirà a disseminare lungo tutto il testo, con diabolica astuzia ed esibita negligenza. Sin dal principio.
Il romanzo è strutturato in una introduzione e cinque capitoli, “Piccolo Petter il Ragno”, “Maria”, “L’Aiutoscrittori”, “Il testo sulla parete” e “Beate”. L’introduzione ospita un frammento del diario del narratore, allora diciannovenne: scrive d’avere sempre nuove idee, d’ospitare una moltitudine di anime e d’avere la testa traboccante di voci. È una pagina scritta trenta anni prima: quando l’adorata Maria, incinta da un mese, era appena partita per Stoccolma. Il presente del narratore è complesso: s’è nascosto ad Amalfi, nella stessa casa in cui Ibsen scrisse “Casa di Bambola”, perché ha paura d’essere assassinato. Scrive, perché è – in qualche modo – “istigato a confessare” da un misterioso homunculus, “Metro”, che indossa un cappello di feltro verde a punta, un abito grigio e scarpe di vernice nera, mulinando un bastone di bambù, da passeggio. Metro apparve per la prima volta in sogno, quando Petter era bambino; quindi, si liberò dalla gabbia del sogno, ed entrò nella realtà – rimanendo a lui, e a lui solo, visibile. È un daimon e una guida.
Petter è un uomo molto ricco, ma non conosce più pace: non lo consola l’idea d’aver registrato nastri, contenenti le minacce d’oltre cento persone, e d’averli depositati in una cassetta di sicurezza. Sente prossimo l’epilogo della sua incredibile esistenza. Avvelenato dalla stessa tela che aveva tessuto. E allora non ha che un’alternativa – scrivere il suo primo, vero libro, il libro della sua vita: ha inventato trame, scritto racconti e ideato soggetti, vendendoli sempre e mai apparendo come autore; non ha mai sentito di voler creare qualcosa di assolutamente, esclusivamente suo.
Petter racconta della sua infanzia, felice ma – a detta della madre – asociale. In effetti, il Ragno confessa che passava il tempo a immaginare e fantasticare; creatore di universi e cantastorie, di volta in volta. La sua eroina era Panina Manina, trapezista d’un circo: e racconterà, a distanza di trenta anni, tre differenti versioni della sua storia di bambina perduta e di figlia ritrovata, prefigurando prima, trasfigurando e traducendo poi – come il lettore vedrà – una realtà e un’esperienza. La letteratura anticipa o rivela o interpreta quel che accade: soltanto nelle dimensioni della fantasia, e in ogni alterazione di quel che è, l’essere umano è libero. Il cantastorie confonde realtà e sogno, smarrisce la percezione del limite o del confine: o forse preferisce smarrirla, per non ammettere e non riconoscere le ragioni della sofferenza e del suo dolore.
La prima e sperimentale missione di “sostegno creativo” del prossimo Petter la vive negli anni della scuola: la sua futura vita da “Aiutoscrittori” s’annuncia mentre scrive temi e completa i compiti dei compagni. È un bambino d’un’intelligenza e d’una curiosità non comune: nota le contraddizioni e i contrasti nel Vangelo (p. 46), è in grado di comporre scritti contenenti una discreta parte di errori previsti; è quindi un geniale simulatore, in grado di visualizzare strategie e prassi comportamentali dell’alterità e di adattarsi, caso per caso, all’interlocutore.
Non sembra patire eccessivamente per il suo status di figlio di divorziati, sebbene sia l’unico in classe ad esserlo: vive con la madre ma vede ancora il padre. Tuttavia è difficile non notare come l’ipersensibilità di Petter e la sua straordinaria propensione alla creatività (e all’alterazione della realtà) abbia origine e radice in uno choc che soltanto il tempo – la coscienza, la scrittura – potrà restituire alla luce.
La madre di Petter muore nel 1970, poco prima dell’esame di Maturità. Spontaneamente, nei mesi successivi, lui rinuncia a vedere il padre. Qualcosa s’è incrinato, definitivamente – una fase dell’esistenza s’è conclusa. Ed è in questo periodo che il Ragno comincia a tessere la tela tra gli scrittori, a vendere trame e aforismi; trascrivendo a volte le storie che aveva inventato per Maria, e solo a lei aveva raccontato. Maria è la sua anima gemella – si sono incontrati “riconoscendosi”, o “ritrovandosi”, e per la prima volta Petter non ha sentito l’urgenza d’abbandonare una donna dopo tre o quattro notti. Maria vuole rimanere incinta. Vuole avere un figlio da Petter e poi sparire nel nulla, senza più rivederlo – vuole essere libera, esattamente come lui in precedenza. Senza accorgersene, col tempo il grande architetto delle storie degli uomini si ritroverà ad un tratto ad essere oggetto d’un disegno machiavellico; e d’un tratto le creature della sua immaginazione, libere per anni di navigare nel mondo, si faranno spettri: e s’incarnerà la verità nell’abito della menzogna, e un’antica tragedia rivivrà. Un romanzo alla Gaarder: intelligente, profondo, coinvolgente.
Da non perdere.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Jostein Gaarder (Oslo, 1952), ex insegnante di filosofia, romanziere e favolista norvegese.
Jostein Gaarder, “Il venditore di storie”, Longanesi, Milano, 2002. Traduzione di Giovanna Paterniti.
Prima edizione: “Sirkusdirektørens datter”, Oslo, 2001
Gianfranco Franchi, settembre 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.