ISBN Edizioni
2010
9788876381379
“Là dov'è la vigna di uve nere, non ci sono strade. È per questo che non si odono voci né cigolii di carri, né picchiettii di zoccoli di bestie. Il mare è troppo lontano perché il rumore che la tempesta fa quando sbatte contro la costa arricciandola di bianco possa salire fin lassù. Se il vento è favorevole, ne arriva un ansimare fioco e tramortito come di persona soffocata da un bavaglio; un ansimare che, per non essere percorso da altre varianti di suono, diventa un'aggiunta di silenzio” (De Stefani, “La vigna di uve nere”, X, p. 99).
Alle spalle una raccolta di versi, “Preludio” (Ciuni, Palermo 1940), Livia De Stefani (1913-1991) esordì in narrativa per Mondadori con questo “La vigna di uve nere”, passato, nell'arco di cinquant'anni, per una ristampa Rizzoli e per questa nuova edizione ISBN, completa di notevole postfazione di Salvatore Ferlita e di notizie biobibliografiche estremamente accurate. In pieno stile “Novecento italiano”, per capirci.
Ferlita restituisce queste parole dell'autrice, fertile e commovente viatico alla lettura: “Quando ho scritto 'La vigna di uve nere' pensavo che avrei avuto successo solo in Sicilia, invece i siciliani disprezzarono il libro, lo considerarono un'offesa, tanto che per molto tempo non sono potuta tornare nell'isola. Sono dovuti passare venticinque anni perché l'atteggiamento mutasse” (p. 220). In quegli anni, ricorda il curatore, la mafia era ancora un tabù – in letteratura come nella cultura, in generale. Non erano stati ancora pubblicati “Banditi a Partinico” di Dolci (1955) né “Le parrocchie di Regalpetra” di Sciascia (1956). La De Stefani, che pure si limitò a fare cauti ed equivoci riferimenti alla mafia, contribuì a incrinare il triste e omertoso muro di silenzio, con questo suo scritto. Buona ragione per restituirlo alla luce. Non la ragione principe, ammettiamolo. Montale accolse con discreta benevolenza il romanzo, apprezzando slancio e freschezza del tono, e il racconto “realistico fin dove il realismo può servire”; Carlo Levi, rimarcando pure la concentrazione dell'autrice sulla quotidianità, ammetteva che ci si trovava in un mondo “magico nella sua natura, nel modo della visione, nel significato delle cose, nel giudizio”, sullo sfondo di un “mondo patriarcale, eroico e feroce”.
Oggi sono proprio questi aspetti a sedurci e a spingerci alla lettura; la capacità di raccontare con pennellate forti, e stile ultradescrittivo, una vicenda incestuosa e torbida, mantenendo qua e là qualche scelta stilistica derivativa dal paradigma verghiano (a partire da qualche proverbiuzzo localissimo, e da una naturale capacità di osservare e raccontare la realtà – le realtà – dal basso) e mostrando buona dignità letteraria nelle scelte lessicali, e nell'analisi delle dinamiche psichiche dei personaggi.
Casimiro, mafiosetto di Giardinello, paese di montagna, si ritrova a vivere nel paese di mare di Cinici, per ragioni mai chiarite: vive un amorazzo con una donna dal robusto passato e dalla franca predisposizione alla sottomissione, Concetta. Nascono tre figli, che vengono allevati lontano da casa e poi restituiti alla famiglia originaria da adolescenti. Tra due di loro nasce qualcosa di proibito. L'esito è drammatico, autodistruttivo e innescato dalla grettezza e della prepotenza del pater familias. Non siamo dalle parti dei giardini di cemento di McEwan: c'è, nella rovinosa vicenda dei due fratelli che s'amavano d'un amore proibito, un equilibrato e lucido racconto del risentimento di chi s'era trovato a crescere e vivere altrove, per anni, plasmando la propria identità con disinvoltura e naturalezza, e tutto a un tratto si sente buttato qua e là una bestia, sradicato e trapiantato altrove. “La vigna di uve nere” è più un romanzo ribelle – drammaticamente ribelle, essenzialmente ribelle – che un romanzo di denuncia, o di morbosa concentrazione sul proibito. La De Stefani non cerca la rappresentazione della sensualità, cerca piuttosto la rappresentazione della caduta nel precipizio. L'aggettivo migliore per caratterizzare la sua scrittura è uno solo: “intensa”. Saliamo decisamente di livello, invece, ogniqualvolta l'artista isolana prende e descrive qualsiasi cosa, cose o persone. Eccone una che m'è rimasta decisamente impressa: sembra una tela d'un macchiaiolo:
“I Marino abitavano un casolare costruito al limite della campagna fertile, là dove dalla terra mista a pietrisco incominciano a sbucare i macigni ruzzolati anticamente dal monte e i duri cespi di saggina. La loro casa composta di due stanzette, la prima col focolare e la tavola, l'altra con il letto e il cassettone, era estremamente linda. Per alcuni particolari gentili, quali all'esterno, lungo i quattro muri, una striscia di terra sarchiata e coltivata a giardino, e alle finestre tendine di tela azzurrata dall'indaco per apparire ancora più bianca, la casa distante dalla terra grassa, isolata ai piedi del monte, curata e fiorita, sembrava bizzarra, come se appartenesse a un forestiero” (VI, p. 61).
Quando la De Stefani descrive un uomo si fa scultrice: “Casimiro era un uomo di media statura, non grasso, ma atticciato; il busto aveva simile a un pilastro, spalle e fianchi della stessa misura; e le gambe, piuttosto corte, fornite di robusti polpacci, gli si arcuavano in modo che i pantaloni sul davanti gli spiombavano pressoché vuoti e dal di dietro invece si riempivano, stirati in tondo dalle prominenti muscolosità. La testa, che su quel corpo avrebbe dovuto essere pesante, e di capelli ricciuti, era inaspettatamente piccola, stretta alle tempie da cui si partivano neri capelli lisci, e mobilissima su di un collo troppo sottile per quel tronco. Gli occhi, anche da giovane, li ebbe contornati da minuscole rughe, causate forse dal costante sforzo compiuto a mantenerli socchiusi, come per troppo sole” (I, pp. 7-8).
Chiudiamo così. “La vigna di uve nere” può essere utile a molti narratori italiani contemporanei per tornare a studiare l'arte delle descrizioni. È – immagino – uno dei migliori complimenti che si possano fare, a distanza di mezzo secolo, a una narratrice che forse non ha mai scritto il romanzo immortale che poteva avere nelle corde, ma ha saputo dare prova di grazia, stile e buone capacità, guadagnandosi – profezia facile – qualche pagina nelle future antologie. Sacrosanta.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Livia De Stefani (Palermo, 1913 – Roma, 1991), scrittrice e poetessa italiana. “La vigna di uve nere” (1953) fu la sua opera prima.
Livia De Stefani, “La vigna di uve nere”, ISBN, Milano 2010. Con uno scritto di Salvatore Ferlita. Collana Novecento Italiano.
Prima edizione: Mondadori, 1953. Quindi, Rizzoli; Bur, 1975.
Gianfranco Franchi, luglio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.