Impressioni italiane

Impressioni italiane Book Cover Impressioni italiane
Charles Dickens
Robin
2005
9788873711780

In principio c'è una carrozza inglese da viaggio: si trova a Parigi, esce da Rue Rivoli, diretta a Genova. Dickens è il capofamiglia (e il capo della carovana, completa di tre cameriere): ha trentadue anni, è uno scrittore già popolare (“Oliver Twist”, “Il Circolo Pickwick”), ha già pubblicato un diario di viaggio (le polemiche e discusse “American Notes”). Cerca una terra dove ripararsi dalle pressanti richieste economiche del padre (e non solo), dove ritrovare empatia e ispirazione e dove crescere, con calma, i quattro bambini. Ne derivano queste frammentarie e frammentate note di viaggio, non sempre riuscite e spesso leziose e compassionevoli, negli intenti estranee a osservazioni sui governi allora in auge nel Belpaese e a rilievi dedicati alle nostre opere d'arte: Dickens voleva le sue note fossero “vaghe immagini”, “mere ombre sull'acqua” di luoghi cari all'immaginario popolare. Non andrà esattamente così, come state per scoprire. Perché di ombre ne incontreremo, e non saranno innocue né poco dolorose. “Pictures from Italy 1844-45”, originariamente edito nel 1846, torna a circolare in Italia dopo quasi un secolo grazie alla curatela di Claudio Messina per le edizioni Robin, nel 2001. Il lettore, riconoscente, omaggia il curatore.

Genova, nel tempo e più avanti tanto amata, in principio sbigottisce l'artista. “La meravigliosa novità di tutto, gli odori sconosciuti, l'inesplicabile sudiciume (malgrado sia considerata la più pulita delle città italiane), l'ammucchiarsi disordinato di cose sporche, una sopra il tetto dell'altra; i vicoli, più squallidi e più stretti che quelli di St. Gilles o di Parigi vecchia (...)” (p. 21): signore eleganti passeggiano per strade di uno “sporco scoraggiante”, tra mostruose vecchie case e palazzi fatiscenti. Presto si ricrederà parlando della strada Nuova e della strada Balbi, o del teatro Carlo Felice, o delle “buie arcate aperte” di Sanremo. Ma il contrasto rimane, e avrà influenza sulle future osservazioni.

Soggiornerà ad Abaro, prima depresso per la rovina e la trascuratezza; quindi, rapito dalle bellezze del paesaggio e dai costumi relativamente primitivi dei cittadini del posto, cambierà approccio. Il primo italiano di cui parla è un vecchio guardiano smanioso di convertirlo al cattolicesimo, descritto come un antropoide abile nella riproduzione del canto del gallo; quindi, parla dei “Baciccia” (Giovanni Battista) che popolano la città, delle richieste di elemosina, dell'abilità italiana nel gioco delle bocce e della morra (pericoloso gioco d'azzardo d'antan), del numero dei preti e dei monaci (ogni quattro persone, per strada, ce n'è uno), delle campagnole che lavano i panni all'aperto, in pietose condizioni igieniche; della meraviglia che circonda le bare (ci si serve di pozzi o di fosse comuni); di postini ubriachi e facili a smarrire le lettere (e a pentirsi: invano). Tra le curiosità: il difficoltoso passaggio dei libri di Voltaire alla dogana; la notizia del gran numero di barbieri (?); la vicenda dei frati Cappuccini amati da tutta la cittadinanza.

Quindi, in viaggio per Bologna, si passa per la “scura, decadente, vecchia Piacenza”, solitaria e piena di erbacce, piagata da povertà, sporcizia e pigrizia, ombra tra le ombre della perduta Roma; e per Parma, dalle strade “allegre e animate” per essere una città italiana (!), che offre una prima descrizione della fatiscenza del nostro patrimonio artistico: “Le malandate e mutili pitture di cui questa chiesa è ricoperta hanno, a mio avviso, un'influenza notevolmente funerea e deprimente. È penoso vedere grandi opere d'arte – qualcosa dell'anima dell'artista – deperire e scomparire come corpi umani. Questa cattedrale odora dell'imputridimento degli affreschi del Correggio nella cupola. Il cielo sa quanto devono essere stati belli a suo tempo. Gli esperti cadono in rapimento estatico davanti a loro, adesso; ma un tale labirinto di braccia e di gambe, un tale mucchio di membra dipinte di scorcio, intricate, involute e mescolate insieme: nessun medico chirurgo diventato matto potrebbe immaginarlo, neanche nel parossismo del delirio” (p. 71).

Bologna è descritta prima per il cimitero (e per il suo cicerone, che fa gran consumo di tabacco per il naso come tutti i suoi colleghi); quindi, per l'atmosfera antica e tenebrosa, per l'aria “seria e dotta”, per la ricchezza del clero, e delle chiese, per il gran numero di turisti. Stesso clima ritrova a Ferrara, soltanto “più deserta e spopolata” ancora. Annota rapidamente qualcosa sulle vetuste bellezze della cittadina, quindi – previo cammeo di un maligno postiglione – parte per Venezia. L'immaginario gotico di Dickens si nutre subito d'un cimitero in mezzo al mare, d'una strada fantasma, case da entrambi i lati; tutte le descrizioni successive sono oniriche, liriche e febbrili. L'artista inglese è assolutamente rapito dall'atmosfera della città. Stesso entusiasmo sente per la shakespeariana Verona. Scolastiche, eccezion fatta per una digressione breve sulla pantomima (p. 114) le pagine dedicate a Milano.

La discesa per Roma si compie lungo la via Aurelia. Meritano menzione le pagine dedicate a Pisa, meraviglia del mondo per la torre e per i mendicanti (“tendono agguati all'infelice visitatore a ogni angolo di strada”), e a Livorno (famosa per gli accoltellatori, spesso nemmeno sicari: assassini, arte per l'arte, diciamo così). A Roma Dickens s'avvicina via campagna romana: “Di tutti i tipi di campagne che avrebbero potuto trovarsi fuori delle porte di Roma, quella costituisce il cimitero più adatto e più conveniente alla Città Morta. Così triste, così quieta, così tetra, così segreta nel suo coprire grandi ammassi di rovine e celarli alla vista; così somigliante ai luoghi desolati nei quali gli uomini posseduti dal demonio usavano andare a ululare e a lacerarsi le carni, al tempo dell'antica Gerusalemme. Dovemmo attraversare trenta miglia di questa campagna, e per ventidue andammo avanti e avanti, senza vedere altro che qualche casa solitaria, qua e là, o qualche pastore d'aspetto selvaggio, con i capelli incolti sulla faccia, avviluppato sino al mento in un lurido mantello bruno, che badava alle sue pecore” (p. 132).

Ma l'approccio muta quando scorge la città da lontano: la bestemmia che pronuncia (“assomiglia a Londra!”) è ai suoi occhi un grande complimento. Sono i giorni del carnevale (e il Tevere è ancora “biondo”), ma Roma è ferita dalla sua decadenza: toccanti i passi dedicati al Colosseo (pp. 138-139: “una rovina, Dio sia ringraziato”), ai dintorni della città (pp. 176-177) e all'antico e perduto palio di Roma, sul Corso (p. 149 e ss.), mentre ambulanti vendono moccoli (candele) e fiori. Meno riusciti i passi dedicati alle cerimonie religiose, di chiaro interesse forse solo per l'autore e per i protestanti; di sicuro fascino, storico e letterario, le descrizioni delle decapitazioni dei malviventi per mano vaticana (cfr. pp. 166-168). Tra i presenti, a parte i Dragoni del Papa...

Romani dall'aspetto truce, del più basso ceto, in mantello blu, mantello ruggine o stracci senza mantello, andavano e venivano o parlavano tra loro. Donne e bambini starnazzavano ai margini della scarsa folla. Un largo spiazzo pieno di pozzanghere era stato lasciato completamente vuoto, come un punto di calvizie sulla testa di un uomo. Un mercante di sigari, con un recipiente di coccio pieno di cenere di carbonella in mano, andava su e giù gridando le sue mercanzie. Un pasticciere ambulante divideva la sua attenzione tra il patibolo e i suoi avventori. Dei ragazzi tentavano di arrampicarsi sui muri e ricadevano giù. Preti e monaci si facevano largo con i gomiti tra la folla e si alzavano sulla punta dei piedi, per dare un'occhiata alla lama; poi se ne andavano. Artisti, con inconcepibili cappelli del medio evo e barbe (grazie al cielo) di nessun evo, dardeggiavano intorno sguardi pittorescamente imbronciati (...)”.

Il boia, che non superava Ponte Sant'Angelo se non per eseguire il suo sordido compito, uccide. Nell'indifferenza di tutti. E mentre Dickens osserva il sangue e le fredde reazioni del popolo, qualcuno gli fruga nelle tasche. Terrificante.

Napoli non conquista Dickens: sia per la parlata, ben distante dall'italiano e infarcita di gestualità e cenni, sia per la bellezza del golfo – che giudica secondo a quello di Genova: in una lettera a Forster, inclusa – frammento – in questa edizione, spiega meglio: “La vita per le strade non è pittoresca e insolita neanche la metà di quanto i nostri sapientoni giramondo amino farci credere (...) Che cosa non darei perché solo tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l'ingrasso dei pidocchi: goffi, viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri” (p. 193). That's amore.

Già il passaggio tra Roma e Napoli era stato doloroso, sin dalla frontiera partenopea, sin dall'ingresso a Fondi: “Ricordatevi Fondi, in nome di tutto ciò che è misero e mendico. Un lurido rigagnolo di fango e di spurghi forma piccoli meandri giù per il centro di una strada miserabile: alimentato da rivoletti immondi che sgocciolano da case abiette” (p. 197). Aggiunge che non c'è una finestra o una porta che non sia fradicia o cadente. L'artista è meravigliato dalla sopravvivenza di vari cani randagi incontrati per strada. Vi risparmio le descrizioni dei bambini poveri, dei mendicanti e degli storpi.

Napoli è raccontata per i borsaioli, i mendicanti, gli stracci, fiori, sporcizia e degrado e splendore perduto; una città che canta, balla e gioca (lotto in primis) patendo la fame, mentre la montagna infuocata minacciosa non si ferma mai. Firenze sarà una sosta prima del ritorno in patria: alle solite concessioni sulla bellezza di palazzi e scorci, Dickens abbinerà il racconto di un omicidio (una giovinetta uccisa da un ottantenne).

Ecco come si congeda: “Separiamoci dall'Italia, con tutte le sue miserie e i suoi errori, affettuosamente: nella nostra ammirazione delle bellezze naturali e artificiali di cui è piena fino a traboccarne e nella nostra tenerezza verso un popolo per la sua indole ben disposto, e paziente e mite. Anni d'incuria, d'oppressione e di malgoverno hanno esercitato la loro opera per cambiare la natura e piegarne lo spirito; meschine gelosie – fomentate da principi insignificanti per i quali l'unione significava la scomparsa – e la divisione delle forze, sono state il cancro alla radice della loro nazionalità e hanno imbarbarito il loro linguaggio; ma il buono che è sempre stato in loro è ancora in loro, e un grande popolo può, un giorno, sorgere da queste ceneri (...) L'Italia ci aiuta ad imprimerci in mente la lezione che la ruota del Tempo gira per uno scopo, e che il mondo è, nei suoi caratteri essenziali, migliore, più gentile, più tollerante e più pieno di speranza a mano a mano che gira” (p. 226).

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Charles Dickens (Landport, Portsmouth, 1812 – Gadshill, 1870), scrittore inglese.

Charles Dickens, “Impressioni italiane”, Robin, Roma 2001. Traduzione, introduzione e note di Claudio M. Messina.

Prima edizione: “Pictures from Italy 1844-45”, 1846.  Prima edizione IT: Biblioteca del Vascello, Roma 1989.

Gianfranco Franchi, febbraio 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.