ISBN Edizioni
2010
9788876381744
Quando una storia racconta d'un inventore di storie (in questo caso, un plagiario di talento, già da minorenne) si ha sempre la sensazione di ritrovarsi a essere spettatori d'un quadro di Escher. La letteratura scrive della letteratura: meglio, del problema dell'invenzione della scrittura, della sua genesi, della sua essenza. Il meccanismo, eccezionalmente autoreferenziale, può dare vita a librotti allegri e vivaci, mai dinamitardi (Gaarder, “Il venditore di storie”) oppure a robuste iniezioni di esistenzialismo (il Bandini di Fante, per dire: o il “Martin Eden” di London): leggiamo di scrittori che non sanno cominciare a scrivere, oppure che confondono vita e scrittura. Leggiamo uno scrittore che scrive di uno che vuole scrivere e magari non riesce. E poi magari ne scriviamo a nostra volta, o scriviamo come quello che voleva scrivere, se siamo abbastanza giovani e romantici. L'altra alternativa è il thriller-andante. Il mezzogiallo metaletterario. Riuscito o meno che sia, ci costringe a guardarci allo specchio. A chiederci – come in questo caso – quanto dobbiamo a grandi e meno grandi artisti; quanto abbiamo interiorizzato, e fino a che punto, la loro scrittura; quanto sia importante e quanto sia rara l'originalità; quanto sia chimerica, e meravigliosamente chimerica, fin quando non succede il gran miracolo. No, non succede a tutti.
“L'inedito di Hemingway” (ISBN, 2010; UK, “The Pretender”, 2008) è la storia di un ragazzo che forse non ha nessuna creatività, ma ha un talento; quello di riuscire a imitare lo stile dei grandi artisti del tardo Ottocento e del Novecento. David Belbin (Sheffield, 1958), con questo romanzo, esordisce nella letteratura “alta”, dopo anni di onorata e prolifica militanza in quella giovanile. Forse “L'inedito di Hemingway” non passerà alla storia per lo sperimentalismo (nullo), per l'introspezione dei personaggi (lineare, superficiale), per i dialoghi (medi) o per l'ambientazione (di cartapesta). Forse non è altro che la (carina) ammissione di “normalità” d'uno che sognava d'essere Beckett, ma è semplicemente Belbin. Stiano come stiano le cose, “The Pretender” è un bel romanzotto che avvince e seduce per la trama molto ben distesa, per la notevole quantità di reminiscenze letterarie, niente affatto scontate (almeno: non sempre), per la dedizione alla causa della letteratura del suo protagonista, e per l'intelligente epilogo – che suona come una lezione di morale (che condivido in pieno).
Forse non ci sarà nessun film. Forse non ci sarà l'elogio della critica “alta”. Però ci sarà l'apprezzamento e l'approvazione d'un pubblico più eterogeneo del solito, per le pubblicazioni ISBN, spesso viziate – per così dire – da uno standard qualitativo sinceramente elevato. Belbin non è Trigell e non è il gallese minimal Cynan Jones. È un gran lettore che ha deciso di mettersi – molto presto, immagino – a raccontare storie. E in questo caso, memore d'una tradizione così antica che non va nemmeno nominata, ha pensato: scrivo una storia delle storie. Scrivo d'uno scrittore degli scrittori. E della triste o giusta fine d'uno che s'attribuiva l'identità e le idee degli altri. Mi sono bevuto questo libro come un buon bicchierone d'acqua fresca (non ghiacchiata) dopo qualche ora sotto il sole. È stato piacevole.
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Mark Trace ha un talento. Quello dei falsi letterari. A quattordici anni sa scrivere come Dickens. È cresciuto senza papà, sua mamma, bibliotecaria, gli leggeva ogni sera qualcosa. Altrimenti c'era la biblioteca – ma le visite erano razionate. Razionandole in quel modo, la biblioteca era diventata qualcosa di proibito, e quindi di magnifico. Mark era diventato subito un lettore formidabile. A diciott'anni decide di andare a studiare a Londra, perché vuole fare lo scrittore e i grandi scrittori devono vivere a Londra. Ma prima si concede il lusso di un'esperienza parigina. Si ritrova a fare il commesso in libreria. Intanto medita sulla sua scrittura, e decide di imparare a scrivere come Hemingway, dopo aver comprato una vecchia, romantica macchina da scrivere. Scrive frasi brevi, evita la ridondanza, cerca di mantenere il tono di EH. Man mano, scrive degli inediti di Hemingway. Intanto diventa insegnante di francese per stranieri, e di inglese per francesi. Per ragazze. Francine è qualche anno più piccola, Helen qualche anno più grande. Un giorno, Helen trova uno dei suoi “inediti di Hemingway”. Si convince che sia Hemingway. Francine, intanto, s'è proprio innamorata. E Mark ci casca. Cascherà in parecchie altre cose. Come nel pensiero che i cattivi scrittori copiano, mentre i bravi scrittori rubano. La filologia va giustizia, è una scienza. Si serve di armi molto elementari. Come le indagini d'un buon detective. Logica, fatti, abitudini.
Dirvi altro della trama è stupido. Questo libro è tutta trama. Sciroppatevelo e poi ne riparliamo. Scrivendo d'uno che ha scritto le storie scritte da altri. Come fossero sue. E via dicendo.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
David Belbin (Sheffield, 1958), scrittore inglese, popolare nella narrativa per ragazzi. Questo è il suo esordio nella letteratura adulta.
David Belbin, “L'inedito di Hemingway”, ISBN, Milano 2010. Traduzione di Silvia Rota Sperti.
Prima edizione: “The Pretender”, 2008.
Gianfranco Franchi, marzo 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.