Dry

Dry Book Cover Dry
Augusten Burroughs
Alet
2005
9788875200138

Secondo memoir di Augusten Burroughs, “Dry” è un monumentale esempio di come una narrazione in prima persona, egoarchica ed egolatrica, e una concentrazione totale e netta sulla propria esperienza esistenziale, possano e sappiano dare vita a grande letteratura. Americana, contemporanea, necessaria: necessaria perché, attraverso la sintesi e la trasfigurazione dell’esperienza esistenziale di Christopher Robison, alias A. Burroughs, viviamo drammi, conflitti e dinamiche universali; e se non universali almeno occidentali, ossia tendenzialmente europei e ovviamente nordamericani. Artista di eccezionale sensibilità e chiara fragilità interiore, per via di una vicenda biografica e d’una formazione atipica e dolorosa (cfr. “Correndo con le forbici in mano”), Burroughs scava e sonda la profondità del male: del suo male, e di quello delle persone che ha attorno; dipingendo e nominando quel demone che ci infesta e ci tiene al guinzaglio, mutando aspetti ma derivando sempre dipendenza. Non estraneo – e non potrebbe essere altrimenti, in un soggetto così malinconico – a improvvisi sprazzi di sarcasmo, di ironia e di divertente cinismo, comprensibilmente integrati per diluire la sofferenza e il malessere, avanza nel buio del futuro; impaurito da sé, dalla caducità di tutto, dalla precarietà delle sue forze e dall’influenza dei suoi vizi, e intanto pieno di vita, di voglia di vivere, di essere felice. Mi verrebbe naturale scrivere che l’autore è nel pieno d’un periodo di corrosione interna, di sgretolamento; fortunatamente, tuttavia, l’esistenza di un libro come questo dovrebbe dimostrare il contrario. “Dry” grida che Augusten ha nominato il nemico. Almeno, un altro nemico; è riuscito a sconfiggere la dipendenza dagli alcolici, ha conquistato altro e diverso equilibrio: altra e più forte consapevolezza di sé. Del futuro. Della fragile e magnifica essenza dei sentimenti, dell’importanza di viverli nel momento e non nel ricordo. Ma come ogni alcolista può confermare, quel demone non si vince; s’addomestica. Perché non si uccide, si addormenta. Non va schernito né mitizzato, va tenuto a bada. Dominato. Periodicamente si risveglia: pretende e domanda tributo dal suo vassallo. La ribellione non è indolore. Le ultime battute del narratore, in questo senso, sono fondamentali.

E adesso passiamo alla trama, a qualche osservazione sui personaggi e sullo stile dell’autore. Preferisco partire da questo frammento: p. 86, parte prima. Sobri. Dunque è per questo che sono qui. E improvvisamente questa parola mi riempie di una strana malinconia. Non mi sentivo così dai tempi dell’infanzia. Quel tipo di malinconia che si prova alla fine dell’estate. Quando le lucciole sono ormai sparite, gli stagni prosciugati e le piante appassite, stanche di essere così verdi. Non è più esattamente estate, ma l’aria è ancora troppo calda e pesante per essere autunno. È una stagione fra le stagioni, la sensazione di qualcosa che muore”.

Augusten è un copy di venticinque anni. Si sente vittima del panico di fronte alle regole, all’ordine e alla responsabilità della vita quotidiana, e non ama il suo lavoro: la pubblicità fa sembrare bello ciò che non lo è affatto, crea false aspettative e impone spese non necessarie. Sporca l’anima, sembra di capire. Augusten si sostiene bevendo, da diversi anni. In agenzia cominciano a fargli notare che si presenta sempre più gonfio e insofferente, spesso in ritardo e spesso annunciato dall’odore di alcol. Sta andando a fondo. I clienti sono pettegoli, i colleghi preoccupati; così, viene “invitato” (“condizionato”) a riabilitarsi per un mese, altrove. Sceglie una clinica famosa tra i gay, il Proud Institute. Il suo migliore amico, Pighead, grande amore incompiuto della sua vita, è sieropositivo ma non ha ancora l’AIDS. Non ha difficoltà a dirgli che da ubriaco diventa cattivo e aggressivo, intollerabile per chi non lo ama. Augusten ricorda com’era suo padre, in passato, e allora prova a chiamarlo per rinfacciargli episodi d’infanzia e d’adolescenza e pessime lezioni di vita: la conversazione è fredda e serve solo a confermarci l’impressione che, non troppo inconsapevolmente, il narratore stia replicando l’esempio paterno. Vuole forse restituire il martirio, responsabilizzandolo? Difficile.

La storia si sposta da New York al Minnesota. Poco a poco, Augusten si integra nell’istituto; dapprima rifiuta d’essere un “addicted”, come gli altri ospiti; drogati di crack, di cocaina, di sesso o di alcol. Si sente “alcolista pubblicitario”, eccentrico e distante dalla loro dipendenza. Non è a quel loro livello, si ripete. Invano. Nel tempo, magistralmente registriamo una progressiva integrazione, una lenta presa di coscienza; dal privato dell’autore emergono immagini di brutale chiarezza e grottesca efficacia, come le centinaia di bottiglie vuote lasciate in casa, da tempo, in un disordine terrificante. Ha capito che per poterti ricostruire “devono farti a pezzi. Frantumarti in piccoli pezzi maneggevoli, e poi riassemblarti in un nuovo membro della società, migliore e non alcolista. La polverizzazione comincia da qui” (p. 60). È pronto ad accettare di non essere diverso dagli altri internati.

Nella parte seconda, sobrio da trenta giorni, torna a casa e passa sette ore a spazzare via – in 27 sacchi – le bottiglie vuote che ancora lo attendevano, osso di seppia di quel suo passato. Pulisce e mette in ordine con pazienza e cura meticolosa. Sente questo periodo di distacco dagli alcolici come un lutto (p. 131); e quando cerca di voltarsi indietro, accadono cose come questa: “E’ il mio primo giorno di lavoro e c’è già da affrontare qualcosa che riguarda il bere. Scrivere della birra non è come berla, ma di sicuro significa idealizzarla. Vedo la bottiglia di vetro verde posata sul fondale bianco, illuminata da dietro, i riflettori piazzati su entrambi i lati per cogliere ogni goccia d’umidità sulla bottiglia. Purtroppo, da lì al resto il passo è breve. Già mi vedo a leccare i tappi di bottiglia, bere birra a garganella, fare avance all’assistente del fotografo e finire licenziato per essere caduto addosso alla Hasselbald. Dovrò stare attento. Dovrò stare più che attento. Dovrò comportarmi come se mi trovassi in una zona ad alto rischio, e stessi maneggiando il virus ebola”(p. 127).

E così, tra una riunione degli Alcolisti Anonimi e l’altra, torna a vivere la sua vita da copy; combattuto, nei sentimenti, tra l’amicizia vera e il dimenticato amore nei confronti di Pighead, che nel tempo s’aggrava e s’avvia alla morte, e la relazione autodistruttiva e assurda per Foster, un altro intossicato che non intende davvero smettere di viziarsi e di estraniarsi dalla realtà, Augusten riesce a resistere alla tentazione per diverso tempo. Stoicamente.

Non intendo accompagnare il lettore all’epilogo, preferendo puntualizzare, prima di concludere, qualche aspetto.

Dal punto di vista della battaglia interiore tra il narratore e la dipendenza, in un primo tempo del tutto incosciente, la resa è vivida, d’un realismo e d’una efficacia impressionante; quanti mostrano sensibilità psicoanalitiche nei confronti delle opere letterarie qui incontreranno numerosi frammenti di grande interesse, a partire dall’irruzione improvvisa (da un punto di vista della linearità testuale, s’intende) di memorie e reminiscenze, dalla riemersione di rimozioni e ostruzioni, dalla coincidenza tra queste riemersioni e determinati comportamenti autodistruttivi. Per quanto concerne le parti sentimentali, l’omosessualità di Augusten non impedisce a un etero di riconoscersi nell’altalena di stati d’animo, di emozioni e di desideri; di ricordi, e di rimpianti. È – una volta ancora – universale, nella rappresentazione dell’amore. E dell’amore che poteva essere e mai più tornerà è poeta, elegiaco.

Stilisticamente, il romanzo tiene; l’equilibrio della narrazione è davvero ben calibrato, i dialoghi credibili e freschi e certe descrizioni puntinate dal lirismo. Personalmente mi sono ritrovato incollato a ogni singola riga, come nell’opera precedente; sbalordito dallo spessore di questa analisi interiore, dalla sua naturale universalità, dal coraggio e dalla volontà di scavo dell’autore. A costo di nuovo dolore e nuovo sangue. Augusten Burroughs è un’iniezione di fiducia per l’umanità del tempo nuovo; perché sembra voler fare della sua vita uno scudo per chi ha avuto o potrà avere esperienze simili. Non è prometeico, se non nel senso che sembra essersi dannato per liberare dal male i suoi simili; ma è umanissimo, onesto, travolgente nella sua intensità.

Libro fondamentale per ogni buon bevitore, e ovviamente per gli alcolisti; romanzo importante per la cultura omosessuale, che troverà una nuova attestazione di grandezza e intelligenza e libertà; romanzo necessario per ogni letterato, a testimonianza che niente è più originale della propria vita, a prezzo di viverla con dedizione assoluta e coscienza. Coscienza di poter rovesciare i propri errori, e quindi controllare il male; ma non la morte di chi ami, se non nel simbolo, se non nel sogno. Per ora, da questo punto di vista, dobbiamo contentarci di ripeterci che non c’è un solo istante della nostra vita sentimentale che deve andare smarrito, e che niente deve essere sottovalutato. Perché l’amore non è un demone, è un mistero. Magari maledetto, ma splendido. Non si domina, e forse non si può nemmeno nominare. Soltanto, ti travolge. Sempre, nonostante tutto, e nonostante te. Bere, allora, non consola né sostiene; sprofonda.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Christopher Robison, alias Augusten Burroughs (Pittsburgh, Pennsylvania, USA, 1965), copy, scrittore e saggista americano.

Augusten Burroughs, “Dry”, Alet, Padova 2005. Traduzione di Annamaria Raffo. Risvolto di Matteo B. Bianchi.

Prima edizione: “Dry”, New York, 2003.

Gianfranco Franchi, 27 Agosto 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.