Elliot Edizioni
2010
9788861921153
“Per giorni, mesi, anni, il dottor Capelli d'Angelo ha continuato a dirmi che la casa non si era mossa – che le case non si muovono, è una cosa impossibile – è tutto frutto della tua immaginazione. Occhio sinistro. Non è colpa tua, diceva. La mente si adatta per sopravvivere, diceva. Eravamo nel suo studio. Ancora. Sempre. Parole, così tante. Pioveva fuori dalla finestra, dall'altra parte della grata metallica, la finestra in mezzo a tutti i suoi diplomi. Seguivo delle lezioni, all'ospedale. Mi impegnavo sodo per conseguire un diploma. Sì, proprio così, non faceva altro che cercare di soffocare queste cose, e più ci provava più io le credevo vere. E credevo in lui. Perché lo amavo. Amavo il fatto che volesse aiutarmi, e mi ero ritrovato nei guai le prime volte, perché continuavo a masturbarmi nel corso delle nostre sessioni. Volevo amarmi davanti a lui. Volevo che sapesse che potevo amarmi da solo. Che potevo essere un figlio. E che lui poteva essere mio padre. La mamma non c'era più e Letch non c'era più, e non c'era più nessuno che mi amasse” (Mohr, “Tutto quello che amo in questa vita al contrario”, p. 204).
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Prendi il primo Augusten Burroughs, quello disperatamente vero, ironico e coraggioso, capace di prendere e fare a pezzi il dramma della sua adolescenza, “Correndo con le forbici in mano”, insegnando la sua tecnica di adattamento alla vita; prendi tutta quella narrativa americana novecentesca che ha saputo scandagliare le profondità abissali di un'anima ferita, giocando a raccontarne – con la giusta crudezza e tanta umanità – le sofferenze, i segreti, l'anomia, la disintegrazione, la disperata ricerca individuale di equilibrio, serenità e semplicità; prendi la nevrastenia e le allucinazioni di “Jesus Son” di Denis Johnson; se tutto questo ti è ben presente, sei pronto a leggere l'opera prima di Joshua Mohr, “Tutto quello che amo in questa vita al contrario” [“Some Things That Meant the World to me”, 2009], pubblicato da un editore romano capace di pizzicare, almeno un paio di volte l'anno [Pollock, “Knockemstiff”; Fogle, “Drugstore Cowboy”; Russell, “Il collegio di Santa Lucia per giovinette allevate dai lupi”], il meglio della nuova narrativa americana, e cioè la Elliot.
Pollock, scrivendo di questo libro, ha parlato di “prosa incandescente e amfetaminica”, “accecante”; il Publishers Weekly ha parlato di opera letteraria tanto toccante quanto scioccante; altri hanno giurato che Mohr ha l'impatto, e forse qualche frammento di dna, della rabbia bambina, iconoclasta e distruttiva di “Nevermind” dei Nirvana. Onestamente direi che siamo dalle parti della narrativa taumaturgica, autocurativa, della trasfigurazione necessaria di qualche dolore troppo grande per poter essere sopportato. Non c'è nessuna ribellione diversa da quella dell'espressione del proprio ego, sintomo e segno d'una decadenza politica e culturale nel pieno del suo precipizio; c'è una scrittura malaticcia, appiccicosetta e spostata, piacevolmente freak. C'è una gran voglia di andare al di là della linea d'ombra, e di dare un senso al disordine, al passato sbagliato, e di correggere la rotta del futuro. Tutto ciò è umanamente nobile, non ci piove, e tecnicamente gradevole. Il protagonista del romanzo, Rhonda, soffre di “fuga dissociativa”: “depersonalizzazione”, ma lui è convinto del contrario. Altro che depersonalizzato, semmai lui è più di una persona. È stato un bambino trascurato e ferito dai comportamenti di sua madre, tormentato e sporcato dalle sevizie del suo nuovo fidanzato (ben evocate, più ancora che ben descritte. Saggia scelta). È diventato un uomo pieno di contrasti, di guasti insoluti. E adesso, è come se l'adulto fosse guidato dal bambino; almeno, nella finzione letteraria ciò accade senza particolari difficoltà. Sullo sfondo, San Francisco. Estate indiana, cielo stellato. Abbastanza stellato. Abbastanza da farne un libro. In lontananza, Phoenix. Cielo molto meno stellato. Abbastanza da poterlo reinventare.
Curioso – molto – di leggere il secondo libro di Joshua Mohr. Soprattutto: eccezionalmente curioso di scoprire quali saranno i suoi nuovi personaggi. Lo stile dovrebbe restare simile: e cioè solo apparentemente semplice, perché ben scarnificato.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Joshua Mohr (Phoenix, Arizona 1976), scrittore e insegnante americano. Questo è il suo primo romanzo. Vive nel Mission District di San Francisco.
Joshua Mohr, “Tutto quello che amo in questa vita al contrario”, Elliot, Roma 2010. Traduzione di Giuseppe Maugeri. Copertina di Maurizio Ceccato. Collana “scatti”.
Prima edizione: “Some Things That Meant the World to me”, 2009.
Gianfranco Franchi, aprile 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.