Mondadori
2016
9788804668282
Kerouac non ha mai avuto la patente, eppure ha scritto un romanzo come questo. Ci penso da qualche giorno, ossia da quando ho visualizzato questo concetto: Knut Hamsun (“Fame”) è il gran maestro dell'arte del vagabondaggio in letteratura; è un vagabondo esistenzialista, profondo, sensibile. Quando si perde per Oslo sembra perdersi nella via Lattea, perché è chiaro il concetto principe è che non è dove ti perdi, ma perché ti stai perdendo. Bruce Chatwin è il principe della narrativa di viaggio, parte antropologo e parte intelligente assemblatore di appunti e di note; un letterato snob, umanissimo, un viaggiatore sottile ed empatico. E Kerouac? È il referente primo per un nuovo genere di viaggio: il viaggio mentula canis, vissuto come esperienza straordinaria, irripetibile, formativa. “Cosa stavo facendo? Dove stavo andando? L'avrei saputo presto”, scriveva nella seconda parte del libro, capitolo sette. È una frase-chiave per capire a pieno il senso di un libro come questo: il libro dell'incoscienza. Uno dei libri più ingiustamente e assurdamente sopravvalutati del Novecento: poco più che una brodaglia logorroica, sciatta e ripetitiva (e “ripetitivo” è un eufemismo) di un bel ragazzo, un buon dilettante.
È il 1957 quando viene pubblicato “On The Road”, dopo una laboriosa serie di stesure differenti, destinate a mascherare i nomi reali dei personaggi del romanzo, tutti del clan Kerouac, e a scolpire uno stile di scrittura personale, nervoso e aggressivo. L'incantesimo riesce: un dialogo che normalmente suonerebbe preoccupante e doloroso come questo...
“Dove dormiamo stasera, tesoro?” “Non lo so”… qui suona avvincente e fantastico. Potere della letteratura, senza dubbio: immaginarsi di essere alticci o sbronzi, nomadi tra una città e l'altra, in mezzo a un branco di popolani estranei e imprevedibili, senza nemmeno la certezza di poter dormire da qualche parte è affascinante, in realtà, quanto prendersi un calcio nei coglioni da un tizio che indossa dei vecchi Dr. Martens. Ecco il genio di Kerouac: ha fatto sembrare una grande impresa (meglio: una sequenza di grandi imprese) una delle maggiori coglionate della storia dell'uomo; comportarsi da zingari e inventarsi imprese picaresche nella nazione più occidentale, ricca e borghese del mondo; esaltarsi per sbronze e droghe e rischi di risse e furtarelli e per qualche notte passata a dormire con chissà chi a prezzi nulli o contenuti. Fico? Fico quanto un'attesa di quattro ore alla posta, a occhio e croce, o quanto versare contributi abnormi per una pensione che non riceverete mai; fico quanto non avere i biglietti per pagarsi il bus, e dover scarpinare fino a casa, 10 km a piedi dopo 9 ore di lavoro. Leggere frasi come “Non poteva succederci altro che morir di fame” è sconcertante, se non pensando che, per una sinistra forma di masochismo, ai personaggi di questo romanzo, piace: piace vivere ai margini, campare di stenti, assaporare il catrame dell'asfalto e la polvere della terra, come se tutto a un tratto, per sentirsi vivi, fosse necessario sbagliare, sbagliare tutto; deragliare; complicarsi la vita: fare, in una parola semplice e limpida, i coglioni. Completi.
“E poi noi la conosciamo, l'America, siamo a casa nostra; io in America posso andare ovunque e avere quello che voglio perché è la stessa dappertutto, conosco la gente, so cosa fa. Noi diamo e prendiamo in questa dolcezza incredibilmente complicata, andiamo a zig-zag da tutte le parti”. Non c'era niente di chiaro nelle cose che diceva, ma chissà come il loro significato riusciva a diventare chiaro e puro” (Parte Seconda, Tre). Stupendo, no? Mistico, quasi.
Ecce incipit: a parlare, è Salvatore “Sal” Paradise, l'alter ego di Kerouac; come lui, è uno che viene da una comunità tutt'altro che maggioritaria e influente – è di sangue italiano, e di estrazione cattolica (JK era francocanadese, di religione papalina).
“Incontrai Dean per la prima volta dopo la separazione da mia moglie. Mi ero appena rimesso da una seria malattia della quale non vale la pena di parlare, se non perché aveva a che fare con quella separazione avvilente e penosa e con la sensazione di morte che si era impadronita di me. Con l'arrivo di Dean Moriarty cominciò quella parte della mia vita che si può chiamare la mia vita sulla strada”.
Com'è Dean? È un personaggio superficiale, stupido e solare. Scattante, fianchi stretti, occhi azzurri; a descriverlo basta poco. Dean è espressione vera di voglia di vivere, e di smania di incontrare persone nuove. Ha un “gran sorriso falso da conquistatore”, insuperbito dai suoi “denti di perla”; è un imbroglione innocuo, “un imbroglione santo dalla mente scintillante”; secondo Kerouac, e la sua “criminalità” (virgolette dell'autore) è soltanto uno “scoppio selvaggio e vitale di gioia americana”: ha l'energia di “un nuovo tipo di santo americano”, e le abitudini sessuali di un nuovo americano (due o tre donne per volta; nel frattempo, con discutibile censura di Kerouac, avventure con Ginsberg, alias “Carlo Marx”). Ha una risata da pazzo, spiazzante e trascinante al contempo. È l'idiota sacro (Parte Terza, Tre), in altre parole. Il primo Idiota Americano.
Vuole imparare a scrivere da Sal, vuole diventare un vero intellettuale: è ferito dalla sua esperienza in galera, da un'infanzia bruciata dall'alcolismo del padre, dalla povertà e dalla miseria. E così sembra proprio voglia essere altro, almeno nelle prime battute; e invece eccolo con “Carlo Marx” a sperimentare una comunicazione perfetta via benzedrina (e via dicendo); qualche anno dopo, buon padre di famiglia, alè a sperperare tutti i suoi risparmi per un'automobile, la Hudson; e di fronte a una domanda semplice e chiara, guardate come risponde: profondo.
“Ora, Dean, voglio che tu ti fermi per un momento e mi racconti cosa fai in giro per il Paese”. Dean poté soltanto arrossire e dire: “Ah be', lo sai come vanno queste cose” (Parte Seconda, Sei)
Per capirci, è uno che arriverà ad avere quattro figli, due mogli e nemmeno un centesimo, restando “tutto estasi e frenesia”, vagheggiando d'andare in Italia. E perché? Per andare a mignotte nei bordelli, con l'amico Sal. Cristo che intelligenza. Se questo è un modello, allora capisco bene perché ci sia stato un certo precipizio nella cultura pop statunitense: se il padre delle avventure è un idiota, gli imitatori non potranno essere dei geni.
Passi lirici, in questo squamoso scenario di sketch straccioni e morbosamente ripetitivi, tra bus, pullman, amorazzi e accattonaggio, non mancano. Qualche esempio: “E davanti a me c'era la gran massa nuda del continente americano, del mio continente; lontanissima, chissà dove, la cupa e folle New York buttava in aria la sua nuvola di polvere e vapore scuro. C'è qualcosa di scuro e sacro nell'Est; la California invece è candida come bucato e ha la testa vuota” (Parte Prima, Undici). Wow.
“Cos'è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e disperdersi? - è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l'addio. Ma intanto ci si proietta in avanti verso una nuova folle avventura sotto il cielo” (Parte Seconda, Otto). Poesia, no? Come no. “Pura”.
In tutto ciò, JK non lesina omaggi letterari: nomino almeno Hemingway (“Verdi colline d'Africa”), Dostoevskij, Alain-Fournier (“Il grande Meaulnes”, rubato in un'edicola di Hollywood e mai letto), Saroyan, Hammett, Melville.
Mi piace chiudere con un messaggio ermetico, che da qualche parte, almeno a Nord-Est, verrà capito. È una citazione poderosa, tratta da questo fondamentale romanzo di viaggio. Viaggio sia interiore che esteriore, è chiaro, viaggio in sé stessi e per le sterminate strade dell'America del Nord, sognando la rivoluzione (degli straccioni, degli zingari, dei fattoni e degli alcolisti). È un passo che soltanto un grande letterato in vena di autoironia (indecifrabile per i suoi connazionali: lodevole) poteva congegnare, prova certa di qualche gita a Muggia e dintorni, e di una gran voglia di dire la verità agli amici: la verità su sé stesso, e sulla propria opera. Eccolo. Concentratevi, per favore. “Io mi addormentai su un divano con una ragazza, Mona, tra le braccia”. Sublime.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Jean-Louis Lebris de Kerouac, alias Jack Kerouac (Lowell, 1922 – St. Petersburg, 1969), scrittore americano, di sangue franco-canadese, cattolico; fu tra i padri della Beat Generation.
Jack Kerouac, “Sulla strada”, in “Romanzi”, Mondadori, Milano 2001. A cura e con un saggio introduttivo di Mario Corona. Traduzione di Marisa Caramella.
Prima edizione: “On The Road”, New York, 1957.
Gianfranco Franchi, agosto 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.