Mondadori
9788804555414
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“Oh li incontro sempre per strada i miei bodhisattva!” - gridò, e ordinò delle birre” (Kerouac, “I vagabondi del Dharma”, p. 538): e questo passo è magnificamente adatto a entrare nel cuore dell'opera. Uno dei grandi bodhisattva di questo romanzo artificioso, sciatto e pseudomistico (un bodhisattva, “cioè un grande saggio, o un grande angelo saggio”, che glorificava il mondo con la sua sincerità), non ci crederete, è proprio quel megalomane di Kerouac: protagonista, assieme a una compagnia errante e cangiante di artistoidi (“noi poeti”) e di vagabondi, più o meno “veri”, di scarpinate, scopate, bevute e riflessioni sulla libertà. A quanto pare, in quegli anni andava di moda abbinare la fattanza più assoluta alla dedizione spiritualeggiante a un rozzo buddismo, sporco di ketchup yankee, e naturalmente al sesso; di gruppo, anche, perché no? L'esito di queste straordinarie esperienze estetiche, tossiche e religiose è ben rappresentato da questo libercolo. I protagonisti si sentono “illuminati” (buon per loro), e come tutti gli illuminati considerano l'alterità “idiota” o insensibile. Succede. Certo, magari si finisce per ringraziare le montagne e le baracche per la loro sola esistenza, ma questo non ha eccessiva importanza.
Trentaquattro brevi capitoli. Fofi osservava: trentaquattro, come gli anni di Kerouac mentre scriveva questo libretto; io chioserei, uno più di Cristo, pensando alla crisi mistica di questo signore, che crede anche di fare “miracoli” ma evita di ripeterne, bontà sua: “perché avevo paura di cominciare ad alimentare un interesse troppo marcato per queste cose e di diventare vanitoso. Anche le responsabilità che ne potevano conseguire mi spaventavano” (p. 681). Qual era il miracolo? Far passare la tosse alla mamma, dopo ben cinque giorni di influenza. E quindi? Niente, a occhi chiusi JK ha una visione (una bottiglia di brandy) e allora capisce che la madre ha bisogno del “linimento Heet”. Miracolo, no? Dopo cinque giorni di influenza, di solito, succede. Pure senza farmaci. Ma non ditelo al nostro guaritore yankee.
Trentaquattro capitoli per raccontare i giorni in cui Kerouac si sentiva “molto pio” e non ancora stanco e cinico nella sua adesione formale a certi precetti: era, nelle sue parole, una sorta di bhikku (“monaco errante buddista”) che vagabondava per il mondo (mondo? No: “l'immenso arco triangolare che congiunge New York, Mexico City e San Francisco”) per “spingere la ruota del Vero Significato, cioè il Dharma, e ottenere dei meriti come futuro Budda (risvegliatore) e futuro Eroe in Paradiso” (p. 533). State ridendo? Siete sani.
Contesto? Il curatore dell'edizione ci informa: “Kerouac compone questo breve romanzo con grande rapidità e buone dosi di benzedrina, in dieci sedute, su un rotolo di carta per telescrivente. Siamo nel novembre 1957, a ridosso della pubblicazione di 'Sulla strada', avvenuta in settembre, e dell'improvvisa notorietà che gliene era derivata” (p. LXXI).
Kerouac, in questo libro, canta – semplicemente – la libertà figlia del contatto con la natura, e della dedizione a una religione nobile come il buddismo; è la libertà di chi canta “everybody's got a home but me”, preferendo dimenticare la famiglia e le sue compagne; ben consapevole che la famiglia ribadisce l'importanza di restare fedeli alla propria religione (cattolica: p. 677) e alle proprie radici. Kerouac è felice di scendere a valle e di perdere di vista lo spazio sconfinato del cielo, e di scoprire che dalle montagne non si può cadere (p. 617); mastica buddismo e si diverte a scendere lungo i sentieri. Ciarla di argomenti spiccioli o para-esistenziali o pseudo-letterari con il suo clan, tra sbronze e droghe varie, e quando per sbaglio incontra opposizioni barcolla e vacilla. Il passo che sto per proporvi è decisamente emblematico, in questo senso. Qualcuno obbietta qualcosa, e a JK la cosa non va giù:
“Sono tutte stronzate – gridai – e improvvisamente provai la sensazione che provavo sempre quando cercavo di spiegare il Dharma alla gente, ad Alvah, a mia madre, ai parenti, alle amiche, a tutti, loro non ascoltavano mai, volevano sempre che fossi io ad ascoltare loro, loro sì che capivano, io non capivo niente, io ero solo un ragazzino idiota e un pazzo fuori dal mondo che non capiva il significato vero di questo importantissimo, realissimo mondo” (p. 641): sembra di sentir frignare un adolescente che non tollera d'esser contraddetto, è davvero frustrante per l'intelligenza.
Non so: probabilmente l'unico sentiero di lettura possibile per un'opera del genere è quello di chi vuole pietosamente prendere e contestualizzare il romanzo, costringendolo in un preciso lasso di tempo in cui aveva senso raccontare la ribellione di una parte di intellettuali e di artisti americani nei confronti... nei confronti di ogni cosa. Tutto era sbagliato – a parte la natura, e questo è discretamente discutibile – e tutto andava cambiato: intanto, violare le leggi, le convenzioni, l'etica, le norme e le regole sociali era e restava la strada maestra; vagabondare, pur di non integrarsi nel sistema, era ragionevole e sensato; drogarsi, per dimenticare il dolore e il male, per essere più disinibiti, o addirittura per spegnersi, era necessario. Non ho nessuna nostalgia di quel clima culturale e delle sue creazioni artistiche, e ritrovarle sul mio cammino nel 2009 mi sconforta un po'. È molto difficile accettare l'idea di aver riconosciuto, in certe battute di JK e dei suoi sodali, espressioni e concetti cari a persone che ho incontrato in questi anni, vittime di crisi religiose, spirituali, mistiche: ed è sinceramente curioso che questo disorientamento, questa sbalorditiva distanza dalla realtà, a un passo dalla schizofrenia più pura, si sia accompagnata all'adesione a un primitivo buddismo. È paradossale che una filosofia di vita così gentile, umana e solare accompagni certe menti occidentali in uno strapiombo di superficialità, di fanatismo e di grettezza così tremendo; non capisco, e non riesco a capire, perché possa capitare.
Che altro dire? Se siete tra quelli che credono che Kerouac fosse un illuminato, o un saggio, andate pure a trovare conforto in queste pagine: sono – per carità, come sempre – sconnesse, disordinate, caotiche, sporcate dal suo straripante ego e da quello dei suoi “mitici” compagni; ma sono la conferma che se si ha voglia di autodistruggersi per ritirarsi a parlare con le piante, con gli alberi e con i fiumi c'è sempre stato un illustre predecessore. Magari è un po' imbarazzante che gli alberi (o le baracche) non rispondano, ma in fin dei conti ci si può stare; il silenzio, del resto...
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Jean-Louis Lebris de Kerouac, alias Jack Kerouac (Lowell, 1922 – St. Petersburg, 1969), scrittore americano, di sangue franco-canadese, cattolico; fu tra i padri della Beat Generation.
Jack Kerouac, “I vagabondi del Dharma”, in “Romanzi”, Mondadori, Milano 2001. A cura e con un saggio introduttivo di Mario Corona. Traduzione di Nicoletta Vallorani.
Prima edizione: “The Dharma Bums”, 1958.
Gianfranco Franchi, agosto 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.