Passigli
1999
9788836805624
“E siccome s’avvicinava la decisione di non rivederla più, per accertarsi ch’era già tardi, come per fare forza a se stesso, guardò verso la finestra. C’era già su le cime degli alberi quel colore che ha il sole quando deve tramontare; e che scoraggia. Ai piedi del Gianicolo, Roma pareva frantumata. Essi sentirono freddo; e stettero accanto senza parlarsi. Allora videro la città come se si sbriciolasse tutta e divenisse un’alta stesa di polvere grigia, un poco dorata e luccicante. Poi, si disfece anche di più; e divenne simile alla cenere leggiera che se ne va. I Monti Albani sparirono. Soltanto allora udirono la fontana della villa. Egli disse: 'Vattene: fai tardi'. Natalia prese in fretta i guanti, e si mise il cappello. Quando fu uscita, la sentì ancora muovere per la stanza; e i suoi occhi, aperti nel buio della sera, non la potevano dimenticare” (tratto dalla novella “Roberto e Natalia”).
Non è stato pubblicato invano quel libro che contiene almeno dieci righe indimenticabili. Questa descrizione dell’Eterna dal balcone di Roma, il Gianicolo, è il canto d’un amore che non può (r)esistere perché un uomo non si sente degno d’una donna: quella donna è come Roma, sogno che puoi adorare, respiro d’infinito e promessa d’eternità – sei condannato ad amare questa città: che non avrà mai pari al mondo, ma mai t’apparterrà. E allora, almeno, tu cantala. E cantala dal Gianicolo, se sei un poeta. E non piangere quando dovrai andartene da qui, perché altri canteranno ancora, e per sempre, la grazia d’esser stati vivi, e d’aver vissuto a Roma. Respira la sua grandezza e restituiscila al tuo tempo, se vivi tra chi ha perduto coscienza d’essere romano: vivi nel più grande tributo degli uomini alla bellezza, e cammini sulle strade che portarono alla gloria. Federigo Tozzi non era romano – ma ha scritto un frammento che onora la città che l’ha ospitato dalla giovinezza fino alla morte. Non dimentichiamolo.
Questa raccolta di novelle fu pubblicata dopo la morte dell’autore, nel 1920, a cura di Emma Tozzi e di Giuseppe Antonio Borgese. Soltanto parzialmente, infatti, era stata assemblata e strutturata dall’autore: i racconti erano destinati a essere pubblicati sulla rivista “Raccontanovelle” dell’editore Vitagliano.
Quattordici novelle, vincolate al tema non dell’amore, ma della passione, intesa come morbo e malattia dell’anima; come percezione e coscienza della proibizione, come incapacità d’adesione e partecipazione alla realtà, come drammatico attrito tra ciò che è reale e ciò che è figlio dell’idea.
Non è – frammento d’ouverture a parte – una raccolta di racconti affascinante o innovativa o illuminante. La percezione del lettore è quella d’aver rovesciato il contenuto dei cassetti più polverosi della scrivania del povero Tozzi, e d’aver letto, assemblati senza intelligenza e senza nessun criterio filologico, frammenti, bozzetti, “studi” e “schizzi”. Costituisce un elemento interessante come documento e testimonianza della Roma, o del litorale tirrenico, che appariva ai viandanti e ai cittadini quasi un secolo fa: notevole, a questo proposito, la descrizione di Maccarese e del Soratte (“Campagna romana”), o l’affresco del vecchio Lungotevere (“Una sera lungo il Tevere”). È una Roma sparita, oggi non riconoscibile e forse nemmeno immaginabile.
Allo stesso tempo, si riconoscono descrizioni di una vita sociale, e di una morale borghese, che è coperta, ai nostri occhi di contemporanei, da uno strato di caligine e di polvere irremovibile. I personaggi di Tozzi sembrano eccitati e sconvolti dall’ebbrezza delle relazioni extra-coniugali, giudicano torbido qualsiasi tradimento e sembrano sul punto di cadere preda d’una febbre cerebrale insostenibile per un nudo di donna; c’è chi s’innamora delle amanti degli amici, senza averle viste mai – soltanto perché sono andate a cristallizzarsi nella sua immaginazione. C’è il solito marito cornuto, e cosciente d’esserlo, che finisce per rivelarsi come quel che era: un impotente e un ruffiano. Quale oscena epoca vittoriana ha partorito questi bigottismi? Quale clima politico, religioso e culturale? Quale classe intellettuale poteva tollerarlo?
L’impressione è che i personaggi di Tozzi possano morire di desiderio di fronte ai nudi degli Impressionisti: questo desta sospetto, e invita a domandarsi quale sia la ragione di un turbamento così profondo per qualcosa di così naturale.
Non escludo che certe sensazioni e certi sentimenti siano ancora oggi condivisi; certamente mi rallegro non leggendone più segno nelle opere di letteratura coeve. Mediocri, ma per ragioni stilistiche; o per genetica estraneità all’originalità, alla bellezza, all’innovazione.
“L’amore” è un libretto che può emozionare quella che, in passato, si definiva “sartina”: tuttavia, spurgato dalla pessima qualità e dalla scarsa originalità dei suoi contenuti, può conservare valore come monumento d’una lingua letteraria piuttosto pura e come paradigma per le descrizioni della natura e dei paesaggi.
Voglio concludere con questo piccolo frammento. È parte d’una novella che si presenta esplicitamente come una lettera scritta a un amico, in cui si racconta della calda estate di Federigo e dei suoi amici Orio Vergani, Ercole Drei e Abramich, vissuta da pendolari tra Roma e il suo non eccessivamente esotico litorale. Tozzi spiega molto dello spirito dei suoi personaggi soltanto raccontando come viveva questa spiaggia. È una suggestione, per carità: m’assumo le colpe per eventuali deviazioni dai binari della sedicente critica “scientifica”. Io, in queste righe, vedo un ometto borghese che ha tanta voglia di non essere più quello che è; e che dovrebbe smettere di scrivere, per vivere come un comune borghese. Senza rimpianti. “La spiaggia, completamente deserta, cominciava già ad essere calda; e le onde scintillavano. Io, completamente nudo, facevo una corsa di un mezzo chilometro, e poi tornavo addietro; e dicevano che assomigliavo a un fauno piuttosto grasso. L’Abramich aveva già messo insieme un mucchietto di fuscelli e di legni e li accendeva in modo che il fumo, portato dal vento sotto il riparo di frasche, ci assicurava di più che nessuna zanzara ci avrebbe punto regalandoci la malaria” (tratto dalla novella “Campagna romana”).
Buona lettura – ammesso che reperiate il testo. È fuori catalogo, e immagino sia introvabile. Non è detto che sia un male. Archiviate nell’hard disk quel frammento iniziale, e risparmiatevi una lettura destinata agli specialisti e ai linguisti. Grasso e nudo fauno compreso.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Federigo Tozzi (Siena, 1883 – Roma, 1920), poeta, novellista, giornalista e romanziere italiano. Esordì pubblicando la raccolta di versi “La zampogna verde” nel 1911. L’anno successivo fondò, assieme a Giuliotti, la rivista “La Torre” (“organo della reazione spirituale italiana”). Morì di febbre spagnola nel 1920.
Federigo Tozzi, “L’amore”, Passigli, Firenze 1994.
Prima edizione: 1920. Postuma, a cura di Emma Tozzi e Giuseppe Antonio Borgese.
Gianfranco Franchi, novembre 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.