Mondadori
2005
9788804549970
“Il problema delle storie è che le racconti a giochi fatti (…). Un altro problema è chi la storia la racconta. Il chi, il cosa, il dove, il quando e il perché del giornalismo. La forma che il messaggero dà ai fatti. Quello che i giornalisti chiamano Il Guardiano. Il fatto che il modo in cui si presenta una storia è tutto. La storia dietro la storia” (p. 7). E non bisogna dare giudizi sui fatti: bisogna raccogliere dettagli e dati di fatto, nudi e crudi, tentando d'essere imparziali. Non si diventa giornalisti perché si è bravi a mantenere i segreti (p. 52). Si diventa giornalisti perché si è capaci di raccontare le brutte notizie: di diffondere il contagio. Nel caso del nostro protagonista, si diventa giornalisti per dimenticare d'aver vissuto un'altra vita, di essere stati felici, di aver testimoniato la ferocia e la crudeltà del male. Si diventa giornalisti per cancellare la propria identità e per sostituirla con un ruolo.
Narratore: more Palahniuk, si tratta di un'identità fittizia, di uno pseudonimo. Carl Streator, giornalista, lavora per un quotidiano importante e indaga sulla sindrome delle morti improvvise dei neonati: avvengono tra i due e i quattro mesi di vita, al massimo prima dei sei mesi. Dopo i dieci è praticamente impossibile. Non accade per via delle lenzuola. Non accade per via del raffreddore. Non accade per via dei vaccini. Nessuno sa perché accada: questo soltanto si sa. Le morti tendono ad aumentare in autunno. Punto.
Carl scopre che tutte queste morti derivano da una peste nuova. L'epidemia è una filastrocca assassina. Ha ucciso dei bambini, ha ucciso degli adulti. Ha ucciso il suo caporedattore. È nascosta in “Poesie e filastrocche di tutto il mondo”, a pagina 27. Quel libro va distrutto, scaffale per scaffale. E bisogna risalire all'origine di quel canto. L'autore, Basil Frankie, è morto in circostanze misteriose tre anni prima, non può più parlare. L'editore è già fallito ed è stato rilevato da qualcuno che non tiene molto alla popolarità.
Quella filastrocca non va imparata a memoria. Ha un potere terribile, distruttivo. Assassino. Carl la impara, e uccide senza nemmeno rendersene conto, sulle prime. Uccide dormendo, anche. Quindi si ritrova in una congrega di streghe. Si ritrova ad assistere ai loro riti. Si ritrova perduto in antiche maledizioni, in antichi sortilegi. Può incontrare di nuovo le persone amate e perdute. Può risuscitare perdute tradizioni. “Con i brandelli della filastrocca in mano”, scrive, “impugno il potere di vita e di morte” (p. 187). Siamo dalle parti della più classica vena apocalittica di Palahniuk. La sua cifra stilistica principe. La sinfonia della distruzione. Della distruzione costruttiva (p. 197). Siamo a un passo dal delirio. “Gli antichi Romani scrivevano le loro maledizioni su tavolette chiamate defixiones. I greci usavano i kolossi, bambole fatte di bronzo, cera o creta: le trafiggevano con chiodi, le torcevano oppure mutilavano, staccandogli la testa o le mani. All'interno di queste bambole inserivano i capelli della vittima, oppure una maledizione scritta su un papiro e arrotolata” (p. 149).
Carl parte per disarmare dei libri, tra biblioteche e librerie. In cerca del grimorio (“grimoire” nel libro). Uccidere diventa un riflesso incondizionato (p. 250). La polizia fiuta qualcosa. E a questo punto posso raccontare soltanto che l'identità finisce davvero definitivamente di essere qualcosa di scontato. Il libero arbitrio rimane un giocattolo, l'io si smarrisce e si confonde, il corpo diventa uno strumento, un medium: viene scambiato, posseduto, massacrato. La logica del romanzo scompare in quella fantastica e tetra della stregoneria. Sin da pagina 15, in ogni caso, sapevamo una cosa. Che Helen Hoover Boyle è morta (ma non del tutto). E che questa è la sua storia: “di come mi possiede. Di come una canzone ti entra in testa e non se ne va più. Di come uno pensa che dovrebbe essere la vita. Di come le cose catturano la tua attenzione. Di come il passato ti insegue in ogni singolo giorno del futuro”. Forse sono riuscito nell'impresa di raccontare la trama senza raccontarvi di lei. Gioco un po' anch'io.
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Senza dubbio non si tratta del miglior romanzo di Palahniuk. “Lullaby” è irrazionale, slegato, assurdo e grottesco. Qua e là si riconosce la mano del maestro; nella narrazione delle nevrosi, ad esempio, come in questo passo: uno dei tanti dedicati alla satira della società del rumore, estranea alla tolleranza e alla comprensione del silenzio, estranea alla concentrazione: “Il Grande Fratello non ci osserva. Il Grande Fratello canta e balla. Tira fuori conigli dal cappello. Il Grande Fratello si dà da fare per tenere viva la tua attenzione in ogni singolo istante di veglia. Fa in modo che tu possa sempre distrarti. Che sia completamente assorbito” (p. 28).
Ancora: “La maggior parte delle risate preregistrate che si sentono in Tv risalgono all'inizio degli anni Cinquanta. Oggi buona parte della gente che sentite ridere è morta” (p. 24). E quelle risate passano attraverso i muri.
C'è qualche riferimento autoreferenziale (“Fight Club”) all'irrisolto rapporto con l'arredamento, il design e la comodità: “La gente muore. Le case vengono demolite. Ma i mobili, i bei mobili di qualità restano. Sopravvivono a tutto e a tutti” (p. 64).
In generale, c'è la sensazione di una storia sfuggita di mano – l'epilogo, gotico e assurdo, stavolta non tiene affatto – e della solita, terrificante rabbia, del solito male, del solito veleno sparso tra le pagine. È il romanzo della magia nera americanizzata: del voodoo in salsa Oregon, diciamo così. Per i fan del genere, per i fan di Palahniuk. Neofiti alla larga.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Chuck Palahniuk (Pasco, Washington, 1962), romanziere americano di sangue ucraino. Si è laureato in giornalismo nell’Università dell’Oregon, vive a Portland.
Chuck Palahniuk, “Ninna nanna”, Mondadori, Milano 2003. Traduzione di Matteo Colombo.
Prima edizione: “Lullaby”, 2002. Presto uscirà un film.
Gianfranco Franchi, giugno 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.