Gridare

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Ricardo Menéndez Salmón
Marcos Y Marcos
2009
9788871685021

Amato “L'offesa”, difficile resistere alla tentazione di scoprire un nuovo libro del narratore spagnolo Ricardo Menéndez Salmón, classe 1971, giovane modello d'una scrittura scabra, essenziale e misurata: “Gridare” è una raccolta di racconti a metà strada tra l'evoluto esercizio di stile e l'espressione, quando isolata quando reiterata, delle voci dell'inconscio dell'autore; in altre parole, del suo immaginario. In RMS s'annidano meditazioni sulla schizofrenia e sull'identità (“Se vuole parliamo di Joyce”, “Cavalli blu”), angoscia della creazione artistica (“Per una storia privata della Letteratura”), perplessità sull'appartenenza al presente, e a un presente colorato da una donna diversa da quella perduta o sognata (“Ai nostri amori”, “Gli avi”), infine desiderio di restituire vita e senso agli istinti primitivi, da tutti i punti di vista, come nel racconto eponimo: “Gridare”.

“Gridare” è la storia del cittadino medio Balboa; un giorno legge un annuncio: affittano una camera (economica) per gridare. Massima discrezione. Il locatario non vuole conoscere il suo nome: a patto che lui non chieda il suo. Balboa si prende la mano, nell'arco di un mese: è soddisfatto della qualità delle sue urla ma sente che manchi ancora qualcosa. Un testimone. Il locatario è disponibile. Dal terzo mese, griderà assieme agli altri occasionali affittuari. Tra di loro, la donna dei suoi sogni. Favolosa urlatrice. Sarà amore a prima vista. Si ritroveranno a fare colazione tra un barrito e l'altro, finalmente liberi di essere primitivi. Che significa gridare? “Il grido, così ancestrale, ci infiamma di vergogna. Pochi atti ci permettono di riscontrare fino a che punto abbiamo dimenticato la nostra animalità e il nostro passato, i luoghi da cui proveniamo, come il grido (…) Solo i bambini, che hanno un'esperienza della libertà che noi adulti abbiamo dimenticato, e gli agonizzanti, che non subiscono l'influsso delle buone maniere, gridano senza vergognarsi” (p. 15). Tendenzialmente, gridiamo ciò che non abbiamo (p. 18). Mi sembra che in questo frangente non servano glosse, il significato è eccezionalmente chiaro. Avanziamo.

“Ai nostri amori” è la storia di un pittore prossimo alla prima mostra nella capitale, Madrid. Emozionato, sbarca nella capitale – il pensiero va subito alla possibilità che la sua vita stia cambiando – assieme alla moglie. È passato qualche tempo da quando conviveva là assieme a Julia: adesso c'è Sara, e il pittore giura di aver dimenticato tutto. Non è esattamente così. Tornerà sui suoi passi, punterà la vecchia casa, cercando senso e significati del suo passato, e scoprirà una verità che non avrebbe voluto sapere. E che forse rifiuta, considerando quanto dirà infine alla moglie, post mostra, stranamente consapevole che la loro storia è destinata all'eternità: ha dimenticato la sua essenza; meglio, l'essenza dell'amore, la perduta appartenenza. Chiave di volta per una sua lettura plausibile – rimpianto, verità smarrita – il settimo pezzo, “Le notti della contessa Bruni”. Mi saprete dire.

Il sesto racconto, “Gli avi”, ha elementi in comune con “Ai nostri amori”: protagonista assoluta, la pittura. È la vicenda dell'incredibile incontro tra uno storico dell'arte e una misteriosa visitatrice, prigioniera d'una tela da secoli. Lui – esperto di Pieter il Rosso, sta per ascoltare una verità incredibile: la sua ospite è la prima moglie del pittore, vissuta quasi cinquecento anni prima; raffigurata in un quadro. Domanda d'essere liberata: cancellata dal quadro per non più attraversare il tempo, come uno spettro. Al critico e alla moglie spetterà una decisione fiabesca, lirica, allegorica. Notevole.

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Il terzo racconto, “Se vuole parliamo di Joyce” è la storia di Martin, che sogna di diventare scrittore e intanto si guadagna da vivere facendo sondaggi. Un giorno, si ritrova a intervistare un suo alter ego cinquantenne. Ascolterà la triste voce della vita di un uomo che ha fallito, e si ritrova a vivere, in una casa senza specchi, in compagnia di una sola immagine: è la foto del grande Joyce, immortalato mentre corregge le bozze. Moglie e figlio non ci sono più. Quando Martin esce, ritrovandosi per strade sconvolte da un attentato (o da un incidente...) ha ricevuto il messaggio che non avrebbe mai voluto ascoltare. Non sarebbe mai diventato uno scrittore, ha detto il sé stesso adulto – la morte aveva voluto soltanto accarezzarlo. Nel nono pezzo, “Per una storia privata della Letteratura”, l'argomento si amplia: la smania di perfezione e compiutezza massacra un letterato, vittima del “mal dei costruttori”; si delinea un quadro di compiaciuta descrizione del malessere di chi agogna il capolavoro e la dedizione assoluta all'opera d'arte. Non male. Il tema del doppio è centrale nell'ultimo racconto, “Cavalli blu”: divertissement tra Pessoa e Borges. C'è un Menéndez Salmón che non ha capito quanto talento ha, e un Menéndez Salmón che sogna d'essere decisamente qualcosa di diverso. Una parte di sé è prigioniera della Letteratura, e della smania d'essere tra i grandi, e di dare vita a qualcosa di perfetto – a qualcosa che vada al di là del tempo; un'altra, probabilmente, vagheggia un precipizio silenzioso e borghese, vellicando la bellezza del fallimento – della sconfitta.

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Finalmente, ecco “La vita in fiamme”: sintetica e micidiale vicenda allegorica di un narratore che sta assistendo il padre sul letto di morte, leggendogli pagine di un libro di cui non ricorda più il nome. Proprio qualche minuto prima che il padre se ne vada, vede una curiosa torcia umana lanciarsi, silenziosa, nella sua piscina: silenziosa verrà raccolta dall'ambulanza, senza neppure un gemito. È la vita che combatte il male – e intanto il vicino, tutto felice, annuncia la prossima nascita di un bambino. Avrà il nome di suo padre. L'ottavo racconto, “Terrore”, ha uno spirito analogo; cronaca di una morte annunciata (e ascoltata) per errore. Aleggia un senso di predestinazione prodromico a un grande romanzo fatalista. Tragico ma senza artificio. Attendiamocelo.

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Pittore forse d'un'anima soltanto – la sua - Ricardo Menéndez Salmón è una sicura promessa della narrativa europea. Si lascia leggere e interiorizzare con naturalezza, scorre fresco come acqua di montagna, scivola sulla maniera ma non s'arresta. A valle, terra fertile per letteratura nuova.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Ricardo Menéndez Salmón (Gijon, Spagna 1971), scrittore spagnolo. Ha studiato Filosofia a Oviedo, collabora con quotidiani e riviste (ABC).

Ricardo Menéndez Salmón, “Gridare”, Marcos Y Marcos, Milano 2009. Traduzione di Claudia Tarolo. Collana “Gli alianti”, 166.
Prima edizione: “Gritar”, 2007.

Gianfranco Franchi, marzo 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.