La decadenza della menzogna

La decadenza della menzogna Book Cover La decadenza della menzogna
Oscar Wilde
Rizzoli
2000
9788817153294

The decay of lying” apparve inizialmente sulla rivista “Nineteenth Century”. È strutturato in forma di dialogo: i due interlocutori portano i nomi dei figli di Wilde, Cyril e Vivian. Wilde sembra esprimersi preferibilmente mediante le affermazioni di Vivian, schierandosi apertamente contro l’abominio dell’ideologia del realismo, colpevole di appiattire l’arte nell’imitazione della vita, esattamente in antitesi con ciò che dovrebbe avvenire: la vita stessa deve imitare l’arte. Questa tesi nasceva, considerato il contesto coevo britannico, in parte come argomentazione di rivalsa alle teorie di Ruskin, suo primo maestro al Magdalen di Oxford, nel 1874; coraggiosamente, Wilde la propugnò nel corso di numerose conferenze, senza mai tuttavia ammettere che fosse stata influenzata dalle idee del pittore americano Whistler, che Buffoni, nella sua introduzione agli “Intentions”, giudica uno “scorbutico e ben poco elegante parlatore” (p. 10). Non è trascurabile dunque il contesto sociale contemporaneo come motivo scatenante delle riflessioni dell’artista dublinese: tuttavia, l’argomentazione è assai persuasiva e merita di essere almeno in parte ricordata. La natura è del tutto imperfetta e incompiuta; l’arte rappresenta la “vivace protesta” (p. 32) dell’uomo, il suo desiderio di ordine, bellezza e simmetria. La menzogna e la poesia sono sorelle; Wilde vagheggia la fantasiosa storiografia antica, salutando in Erodoto un padre della menzogna e maledicendo la sciatta riproduzione della vita reale propria della narrativa realista, assassina dei paradossi e delle funamboliche evoluzioni della finzione.

Nella Grecia del V secolo avanti Cristo, Erodoto aveva affermato d’esser consapevole di “dire ciò che è”: a questo proposito, Tagliapietra ricorda: “Erodoto fa parlare il Gran Re dei Persiani Dario, al momento di espugnare con l’astuzia la roccaforte dei Magi di Media: «là dove, infatti, sia necessario dire una menzogna, la si dica; poiché allo stesso scopo tendiamo noi che diciamo il falso, e quelli di noi che fanno uso della verità: gli uni, infatti, mentono allorquando credono di poter trarre qualche vantaggio convincendo con le menzogne; gli altri, invece, si appellano alla verità allo scopo di ricavare, appunto, da essa un guadagno e si abbia in loro maggior fiducia. Così, pur non seguendo le stesse vie, abbiamo di mira lo stesso scopo. Che se non ne dovessero ricavare guadagno alcuno, senza differenza colui che ama la verità mentirebbe e colui che mente sarebbe veritiero». (…) Come Erodoto ha il merito di evidenziare, verità e menzogna, nel gioco politico, si misurano con la prospettiva del vantaggio” (A.Tagliapietra, “Filosofia della bugia”, p. 205; excerpta di Erodoto tratto da Erodoto, “Storie”, 2 voll., a cura di L. Annibaletto, A.Mondadori, Milano, 2000, pp. 548-549).

Dopo questo breve richiamo allo spirito dell’opera storiografica di Erodoto, torniamo ad esaminare il dialogo di Wilde. L’arte corre il rischio di isterilirsi, di privarsi della sua naturale vocazione alla bellezza, alla sublimazione della realtà. La letteratura infatti esige “distinzione, fascino, bellezza e fantasia” (p. 39): nulla più della menzogna può garantire questi esiti. I tentativi di spogliare la narrativa del suo aspetto di fiction prevedono personaggi, come quelli delle opere di Zola, che Wilde non esita a definire “squallidi” nei vizi e “poco interessanti” (pp. 38-39) nelle loro parabole esistenziali. Gli unici personaggi reali, in sostanza, sono, per il poeta della ballata del carcere di Reading, quelli che non sono mai esistiti: l’aspirazione a trarre spunto dalla realtà è un’opaca operazione letteraria, perché la vita è il “solvente che distrugge l’arte” (p. 44).

L’arte ricrea la vita e la plasma, in nome della bellezza, e non della verità: dunque la giusta via dell’arte, la sua unica scuola, il suo unico referente è l’arte stessa. Quel che Wilde definisce la prima dottrina della nuova estetica si può sintetizzare in questo modo: l’arte è indipendente come il pensiero, e conosce e avanza lungo sentieri e vie che lei sola conosce. È in contrasto con lo spirito del tempo, manifesta invece il progresso (p. 67). La verità è solo una questione di stile; la menzogna rigenera la letteratura ogniqualvolta essa sia inquinata dalle propensioni al realismo. La seconda dottrina di questa nuova estetica è che tutta la cattiva arte sorge dal ritorno alla vita e alla natura, o alla loro idealizzazione (p. 67). La terza dottrina è che la vita imita l’arte più di quanto l’arte imiti la vita. L’arte infatti offre alla vita le belle e necessarie forme di espressione (pp. 67-68). La menzogna, si afferma in conclusione, è il fine proprio dell’arte.

Wilde ha ammesso e rivendicato il diritto e il dovere dell’arte ad essere menzogna, concludendo addirittura che la menzogna sia la conditio sine qua non della sussistenza stessa dell’arte. La suprema illuminazione dell’onestà dell’artificio artistico e dell’integrità della finzione svela l’odiosa illusione del realismo: e la loro irritante, consapevole deformazione del concetto di verità e di realtà si sgretola. Manganelli sosterrà, nella Letteratura come menzogna: “Nulla è più mortificante di vedere narratori, per altro non del tutto negati agli splendori della menzogna, indulgere ai sogni morbosi di una trascrizione del reale, sia essa documentaria, educativa o patetica (…). Sebbene siano costretti a mentire, come vogliono le punitive leggi delle lettere, (…) inefficacemente nascondono l’autentico nocciolo di menzogne sotto un velo di una fittizia verosimiglianza” (p. 46). Nel primo capitolo de “La Plastica della lingua”, intitolato “La creta pastosa del soggetto”, Tommaso Ottonieri così riflette a proposito delle nuove consapevolezze dell’autore: “Interprete sulla scena deserta, dell’unica rappresentazione che a quel punto gli è concessa: la trasparenza micidiale, metafisica, della Verità. Che è, inevitabilmente – senza più maschere, sulla scena deserta – il più annichilente degli ultimi inganni” (p. 34).

Accettiamo come ipotesi, dunque, che la letteratura sia l’unico genere di comunicazione che si identifichi nella menzogna, integralmente: cercheremo di dimostrare come si riveli, in ciò, la sua forza e come questo operi una metamorfosi divina e inattesa. La ricerca della bellezza, per via della trasparente anima menzognera della letteratura, diviene prima e unica affermazione della verità. Secondo Andrea Tagliapietra, mentire è, “nel senso prospettato da Wilde, un atto eminentemente gratuito: antiutilitaristico e, quindi, del tutto antinaturalistico. La menzogna così intesa è al di là di qualsiasi considerazione morale e va oltre ogni valutazione etica. Essa diviene l’emblema dell’assoluta autosufficienza di un tipo particolare d’azione, quella del ‘fare’ artistico, che inventa la realtà e non vi si sottomette (…) «Che cos’è una bella menzogna?», s’interroga altrove il Vivian del testo wildiano, «Semplicemente quello che è dimostrazione di se stesso»”.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde (Dublin, 1856 – Paris, 1900), scrittore, poeta, critico letterario, commediografo ed esteta irlandese.

Oscar Wilde, “Decadenza della menzogna”, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2000. Traduzione e note di Marcella Dallatorre. Introduzione di Franco Buffoni.

Gianfranco Franchi, 2002.

Prima pubblicazione: mia tesi di laurea “La menzogna nella Letteratura del Novecento”. A ruota, Lankelot.