Kurt di Koppigen

Kurt di Koppigen Book Cover Kurt di Koppigen
Jeremias Gotthelf
Adelphi
2001
9788845915956

Kurt di Koppigen” è un romanzo di formazione intriso di moralismo e deciso e fondato su una prospettiva cristiana. La vicenda poteva essere senza dubbio narrata e descritta con altra e più divertente letterarietà; le premesse per l’incontro con una figura appassionante di cavaliere duecentesco dissoluto e coerente, fino al termine dei suoi giorni, con la sua immorale e dissennata condotta, sembravano esser state felicemente scandite nella prima parte del testo. Tuttavia, la visione del mondo del narratore – Albert Bitzius, noto come Jeremias Gotthelf, scrittore svizzero della prima metà dell’Ottocento – penalizza e ghettizza la parabola dell’infausto cavaliere di ventura in una vicenda ad uso e consumo delle buone famiglie cristiane e borghesi d’ogni tempo; si può precipitare nel vizio e crogiolarsi nella corruzione, si può essere banditi e assassini: ma viene il momento, per ogni lupo, di farsi neppure pecora, ma buon pastore. E di ritrovare nelle gioie del focolare e nella pia devozione all’unico Dio la via, la verità e il senso della vita.

Kurt di Koppigen” poteva essere il romanzo del cavaliere-brigante al di là del bene e del male, selvatico e dissoluto e lascivo; è invece il grande libro della conversione del peccatore alla retta via, con tanto di crocifisso d’argento a far da grazioso e paganissimo amuleto, e di visione finale con relativo fioretto e morale della favola.

Gotthelf addita e spiega ciò che è bene e ciò che è male in ogni frangente; ogni personaggio può, senza difficoltà, essere ascritto alle legioni degli angeli o dei buoni peccatori oppure essere riconosciuto come membro della schiera dei demoni, vizioso e feroce e dispotico. Tutto estremamente semplice e lineare – pronto per essere interiorizzato da ogni nucleo famigliare, buon paradigma per l’adolescente ribelle e votato alla sperimentazione di quel che non è morale, o legale, o socialmente utile: che sappia, il discolo, che un bel giorno potrebbe ritrovarsi ad essere la preda d’una caccia infernale, nel bosco, inseguito dagli spettri degli antenati, dei consanguinei più prossimi e di qualsiasi creatura cui abbia fatto del male. Pentiti dunque e convertiti, lettore: non è mai troppo tardi per diventare un buon esempio per la cittadinanza tutta e conquistare prestigio e rispettabilità sociale.

Ci troviamo nel Duecento, tempo in cui, in Svizzera, montagne e pianure erano selvagge, racconta il narratore, e non era ancora stabilito se fossero gli uomini o gli animali a dover essere padroni del Paese. Là dove, nell’Ottocento, esisteva il villaggio di Koppigen, seicento anni prima era il castelluccio dei Von Koppigen, aristocratici dall’illustre passato e dal tristo presente. Superbia, ambizione e miseria connotavano il loro dominio.

I Koppigen superstiti sono madre e figlio: Grimhilde è una contessa, di schiatta ovviamente aristocratica, più malvagia che bella, arrogante e spietata. Solita razziare i beni del popolo per rimpinguare il modesto tesoro di famiglia, affida l’educazione del rampollo all’ultimo dei suoi servi, il factotum Jürg, castaldo, precettore e fattore al contempo.

Il rampollo è Kurt, cresciuto all’aria aperta e addestrato dal suo mentore alla logica del furto e dell’astuzia, al culto della prevaricazione ai danni dei più deboli. È ovviamente robusto, e sembra destinato a diventare un grande combattente. È estraneo agli studi: suo unico cruccio è l’indifferenza della madre, parzialmente sanata previo omicidio d’un mercante, per donarle chincaglie e monili di vario genere e non sempre dubbio gusto.

Kurt combatte a piedi, come un brigante: Gotthelf spiega che somiglia addirittura a un fauno, tutto scuro e peloso come appare. Costituisce una banda, al fianco della quale vive un periodo disordinato, tutto furti, omicidi e compagnia di sgualdrine. Jürg comprende che il giovane conte di Koppigen sta eccedendo – quando Kurt si deciderà a partire alla ventura, nonostante lo sconcerto della possessiva madre, il mentore-factotum si sentirà più leggero nel cuore; le prossime, meravigliose vittime del suo padrone non apparterranno alla contea, e più difficilmente se ne parlerà in giro.

Da questo momento hanno principio gli anni del primo vagabondaggio del cavaliere schiso (così tradotto: a significare, crediamo e un po’ diviniamo, “sghembo”, per via del fatto che appare tendenzialmente maldestro, irruente e lento); tra fortunose ospitalità e miracolose accoglienze, tra conventi e baronie (dove risulta regolarmente ridicolo, almeno nei primi tempi, alle giovinette), vivendo rapporti complessi e conflittuali con il destriero di turno (brancaleoneschi, penseremmo oggi), seguiremo Kurt fino alle prime battaglie, attese e vagheggiate e di norma concluse con esito grottesco e sfortunato.

È selvaggio e diffidente, ma nonostante il suo fallimento nel mondo lo conduca – dopo due anni abbondanti – a due ore da casa, curato amorevolmente da tre fanciulle e ospitato dal loro generoso padre, i rovesci del fato sembrano interrompersi; sposerà la più giovane delle tre, tornerà dalla madre con qualche ricchezza (acquisita in dote) e con la meno gradita presenza della consorte e del di lei padre, e si troverà, per qualche tempo, a vivere da gentiluomo. Non durerà molto: si sente incompiuto, desidera tornare alle grandi imprese e – alla morte della madre e del mentore – dedicherà tutto se stesso alle viziose attività d’un tempo (figliando, nel frattempo, con disinvoltura; e trascurando la dolce signora, Agnes).

Fino a qui tutto bene, con gli alti e i bassi di sempre. Sarà necessaria l’allucinazione della caccia infernale per trasformare lo splendido brigante in un moderno amministratore: valorosamente assiso sulla prima sedia a dondolo, a sinistra del caminetto, nel tempo libero.

Non poteva essere diversamente; Gotthelf afferma, infatti, che “le passioni sono spiriti dell’abisso; suscitati dall’abisso, liberati dalle loro catene, questi ultimi seminano attorno a sé la distruzione, distruggono la casa in cui alloggiano, il corpo che li alberga, mandano in rovina il loro stesso padrone, l’anima che li ha suscitati dal profondo, e solo quando la loro opera è compiuta essi tornano nell’abisso, distruggendo il luogo in cui hanno soggiornato, distruggendo corpo e anima di colui che li ha albergati” (pp. 110-111).

Amen, reverendo – peccato. Concludiamo rimarcando che la scena della caccia infernale è un piccolo capolavoro di letteratura gotica – questo sì. Se avulsa dal contesto, alterata e riproposta altrove può essere fonte di fertili produzioni narrative, ancora oggi – a 160 anni di distanza dalla prima edizione del libro.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Albert Bitzius, alias Jeremias Gotthelf (Murten, 1797 – Lützelflüh, Kanton Bern 1854), scrittore svizzero, di lingua tedesca. Studiò Letteratura e Teologia a Berna.

Jeremias Gotthelf, “Kurt di Koppigen”, Adelphi, Milano 2001. Traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia.

Prima edizione: “Kurt von Koppigen”, 1844.

Gianfranco Franchi, settembre 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.