Mondadori
2002
9788804504856
“Io sono convinto, senza essere affiliato a nessuna setta spiritica, che la sola presenza fisica dei libri, in una biblioteca, agisca su chi li possiede. Si legge anche per osmosi” (Pontiggia, “Leggere”, in “L'isola volante”, p. 71)
“L'isola volante” è un piccolo scrigno da tenere ben custodito in biblioteca, perché destinato a tornare a essere più volte aperto, a distanza di anni. Ogni volta regalerà pensieri nuovi e fertili, spunti di lettura e d'approfondimento, occasioni per confrontarsi felicemente con l'artista. È uno zibaldone di prose brevi, saggi, recensioni, schede e confidenze private; non può essere sintetizzato diversamente che così, perché davvero non sembra avere né principio né fine: scorre, come un fiume. Ma è un fiume meraviglioso, dà vita a pesci che non ci si stanca di pescare, e sa emozionare semplicemente lasciandosi contemplare. Vi racconto cosa ho trovato, in questa seconda lettura, nel vecchio Oscar Mondadori. Comincio dalle sorprese.
Prima sorpresa. Pontiggia segnala il “capolavoro di uno sconosciuto”: si tratta di “Torno presto” di James Barlow (Sellerio, 1991; ex Longanesi, 1956), sconosciuto persino al suo editore. Si tratta di un romanzo alla “Rashomon”, contrappunto di verità molteplici a proposito di una stessa vicenda. Secondo Pontiggia, è grande perché è capace di emozionare, e perchè si fonda su una tecnica narrativa micidiale: Barlow è “maestro di un dialogo che non è mai né informativo né didascalico” (p. 47). Cerchiamo di riscoprirlo, allora.
Seconda sorpresa. James Holt, nel suo saggio su Robin Hood, nel 1991 ricordava: “Chi ha mai letto le storie di Robin Hood nella versione originale? Risposta: nessuno”. Pontiggia chiosa: “Robin Hood non è le prime ballate e commedie che sono state scritte su di lui; e non è neanche quel personaggio storico che alle origini le ha probabilmente ispirate. (…) Robin Hood è una leggenda” (pp. 101-102). Non importa che non sia mai esistito, e che non esista “il” romanzo o “il” libro di Robin Hood. Importa che i ragazzi possano sognare di incontrare un eroe capace di rubare ai ricchi per dare ai poveri. Per sempre.
Terza sorpresa. Un classico sicuramente imprevisto? “Il vagabondo. Sociologia dell'uomo senza dimora”, di Nels Anderson. Originariamente apparso nel 1923, tradotto da Donzelli nel 1994, è un aiuto fondamentale per scoprire che esistono differenze di classe anche tra i senzatetto: “Ci sono tre tipi di giramondo: lo hobo, il vagabondo (tramp) e il barbone (bum). Lo hobo lavora e va in giro, il vagabondo sogna e va in giro, il barbone beve e va in giro (…) Uno hobo è un lavoratore migrante. Un vagabondo (tramp) è un non-lavoratore migrante. Un barbone (bum) è un non-lavoratore stazionario” (p. 181).
Quarta sorpresa. Cercate un romanzo “di epicità tolstojana, grandioso e potente”? Puntate “Migrazioni” di Milos Crnjanski (Adelphi, 1992), opera di un “autore inconfondibile”, storia d'una “attesa mistica d'una terra promessa”. Pontiggia non ha dubbi: è un capolavoro.
Quinta sorpresa. Chi ha scritto “La vita comincia a quarant'anni”? Scommetto che non se lo ricorda nessuno. Si tratta di mister Walter B. Pitkin. È un libro di self-help del 1932.
E adesso passiamo agli assaggi. Primo assaggio: Borges. “Scrivere su Borges è diventato come scrivere sulla Gioconda. Il mistero del sorriso è diventato il sorriso del mistero” (p. 27). La cultura, nell'artista argentino, è “materiale fantastico da reinventare attraverso le incognite dell'espressione figurata” (p. 30)
Secondo assaggio: Majakovskij. Pontiggia esalta l'epistolario tra Majakovskij e Lili Brik (Mondadori, 1985), riconoscendo che raramente la passione aveva incontrato “accenti più turbati e sommessi, più dolci e smarriti, più fermi e indifesi”; parteggia per l'artista padre della “Nuvola in calzoni”, per la sua incondizionata dedizione all'amata, per la sua identificazione in un cucciolo.
Altrove, Pontiggia gioca a parlare di vita; incontrando un libraio antiquario medita sul collezionismo, e sulla sua reale natura (“si collezionano oggetti, ma anche esperienze: viaggi, amori, successi. Si può persino collezionare insuccessi e c'è chi ne trae una gioia amara”, p. 19). Scopre che forse la meta della mania è la completezza. E sogna un paradiso come un'immensa biblioteca, ma intanto prende atto che molto spesso intere biblioteche vengono rilevate, post mortem, con tre quarti dei libri perfettamente intonsi.
Ancora. Scrivendo del Barnabooth di Larbaud, Pontiggia medita sul possesso: “Che cosa significa il verbo 'possedere'? Non lo sappiamo. C'è chi lo usa per indicare un atto sessuale di cui è difficile contestare la labilità. Un aiuto ci viene dalla etimologia. Possedere in latino unisce la potenza con l'occupazione di una sede. In questo senso Barnabooth, più che possedere la ricchezza, la sperpera nella mobilità, cioè nella sua negazione” (p. 35).
Ancora. Riflettendo sul tempo libero – e su un suo errore di lettura – Pontiggia ricorda che le parole “libro” e “libero”, al di là di un etimo non condiviso, convergono sotto l'egida di una terza parola importante: tempo. Tempo: risorsa preziosa più di ogni altra cosa, perché, proprio come insegnava Kraus:
“Molti desiderano ammazzarmi. Molti desiderano fare un'oretta di chiacchiere con me. Dai primi mi difende la legge” (p. 68). Sacrosanto, no?
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Quando ho letto questo libro per la prima volta, nel 2002, avevo sottolineato qualche passo. Questo, a distanza di dieci anni, rimane il mio preferito: “Un romanziere dovrebbe essere responsabile del suo linguaggio. E risponderne non solo frase per frase, ma parola per parola. Non crediamo più nella parola giusta, ma conosciamo per esperienza quella sbagliata. Ne siamo sommersi. Ritrovare l'energia biologica della parola è una sfida che vale la pena che sia raccolta” (“Linneo e il romanzo contemporaneo”, in “L'isola volante”, p. 126). Amabile.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Giuseppe Pontiggia (Como, 1934 – Milano, 2003), narratore e saggista italiano.
Giuseppe Pontiggia, “L'isola volante”, Mondadori, Milano 1996.
Gianfranco Franchi, gennaio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.