Capitano Ulisse

Capitano Ulisse Book Cover Capitano Ulisse
Alberto Savinio
Adelphi
1989
9788845906848

Ulisse secondo Savinio: ecco un dramma – eponimo – e un saggio d'accompagnamento, “La verità sull'ultimo viaggio”, nella solita, elegante edizione Adelphi, completa di cinque disegni di Giorgio De Chirico. “Capitano Ulisse”, scritto nel 1925 per il Teatro d'Arte di Pirandello, pubblicato (tiratura ridottissima) nel 1934, (mal) rappresentato nel 1938 (cfr. nota di AT in appendice), è stato relativamente dimenticato sino a questa edizione del 1989, curata da Alessandro Tinterri. “Si trattava del suo primo lavoro drammatico” - spiega il curatore - “cui ne sarebbero dovuti seguire altri, se la delusione provocata dalla mancata rappresentazione non avesse allontanato il suo autore dal teatro per molti anni”. L'accoglienza ricevuta dal volume, invece, era stata discreta, a dispetto delle pochissime copie stampate. È sempre il curatore a informarci di una buona recensione di Bernardelli sulla Stampa: si salutavano in Pirandello, Cocteau e Giraudoux i referenti primi della scrittura di AS, e si leggeva in Ulisse qualcosa d'antico nella struttura d'eroe senza pace, e qualcosa di moderno nella qualità, nel timbro dell'inquietudine che lo andava pungendo e affascinando (cfr. pp. 156-57; con omissis da approfondire).

In tutta onestà, è difficile riconoscere centralità o essenzialità in un'opera come questa, che era e rimane, a distanza di quasi cent'anni, minore; sia nel contesto della produzione saviniana, sia – sospetto – in quello della narrativa teatrale novecentesca. Se il testo è invecchiato male, mostrando chiari rapporti derivativi dalla matrice pirandelliana e ormai stucchevoli intrusioni di finti spettatori nella messinscena, le idee di Savinio su Ulisse rimangono comunque interessanti e limpide. Probabilmente meriterebbero una lettura autobiografica che andrebbe, però, a inficiarne l'universalità. Quindi, alè, glisso, ben felice d'essere negligente.

Senso dell'opera: “soccorrere l'uomo che non trova riposo”, “dare una mano a colui che non riesce a morire: questo il bene che ho fatto all'uomo dalle molte vite” (p. 11). Secondo AS, Ulisse è un incompreso, un grande infelice: va curato e guarito, va restituito al pubblico (in tutti i sensi) e spogliato della sua antica e irrisolta missione, perché finalmente possa morire. Per riuscire in questo intento, Savinio racconta cosa significhino o abbiano significato diverse cose, per Odisseo. Cominciamo dalla nostalgia. È Euriloco a parlare.

Ulisse non è più Ulisse. Ulisse è un desiderio, una nostalgia vagante. Lei, faccia conto, piglia un desiderio, lo veste da capitano di marina e lo mette in un angolo: si muove più? Vuole? Intraprende qualcosa?... No: desidera, sogna, anela. Ora, lei sa bene che il desiderio si rinutre da sé, si feconda da sé come certi molluschi. Quando il desiderio si radica così forte in un uomo, costui non pensa più a convertirlo in realtà. Anzi! Teme, attuandolo, di guastarlo, di vederlo sfumare. Le dirò: a costringere Ulisse a tornare in patria, gli si renderebbe un pessimo servizio” (p. 43).

Siamo dalle parti della didascalia pura, si sarà inteso. Ma con stile, e la solita personalità irruente e tracimante. Passiamo adesso a un altro frammento notevole: Ulisse riconosce la sua stanchezza di fronte a Calipso, che prenderà infine a guardarlo con affettuosa malinconia, pentendosi d'averlo criticato perché le sembrava si compiacesse della sua infelicità.

Basta, Calipso, ti prego! I tuoi rimproveri, i tuoi dileggi, per quanta forza tu metta a scagliarli, vedi, cadono esausti. Non oppongo resistenza, non mi difendo: cado. Tiri pugni a un'ombra. Sono stanco, sfinito. Il mio coraggio, alto una volta e crepitante come fiamma in cima all'albero maestro, ora è inerte come bandiera quando non tira alito di vento” (p. 87).

E più avanti: Ulisse ammette di soffrire di un male diverso; Calipso giura che sia la sua eccessiva bontà, la sua eccessiva generosità, la sua assoluta capacità di perdonare. Ma lui: “A tutti ho perdonato: solo a me stesso non perdono (…). Chi parla di cuore, di grandezza?... Non voglio! Che cos'è, dove sta questa grandezza?... Follia, fumo!... No: una sola cosa chiedo: la pace, la solitudine: lasciatemi con i miei pensieri” (p. 88).

Siamo di fronte a un Ulisse sempre più esausto della sua millenaria storia letteraria, delle sue sempre nuove incarnazioni, della sua stessa leggenda. In altre parole – possiamo dirlo? - della sua essenza. Siamo di fronte a un viaggiatore che non vuole altro che solitudine, e nessun ritorno vagheggia che non sia quello alla casa del padre – nel niente, nella disintegrazione di sé.

Perché? Semplice. “La terra, nostra terribile genitrice, non nutre altro uomo che abbia sperato quanto ho sperato io, che abbia desiderato quanto ho desiderato io, che abbia sofferto quanto ho sofferto io (…). La speranza, è la mia peggiore nemica. La temo più che la morte” (p. 101). Ulisse è debole, “ridotto a nulla”. Il nulla a sé domanda, e pretende. La speranza è un gioco letterario, si trasforma non volendo in una maledizione. La speranza è una bellissima condanna. Infine ti stanca, ti esaurisce, ti svuota. Ti annienta.

L'attesa dell'amata è una menzogna. “Quale attesa?... Mi hai perseguitato dappertutto, hai ostacolato il mio cammino (…). Ti sei frapposta, per non lasciarmi ritrovare Penelope!”. Penelope? Proprio lei che infine ha di fronte?

Intrusa! Usurpatrice” (cfr. “La casa ispirata” per la predilezione saviniana nei confronti del termine “usurpare”) - dice Odisseo - “L'hai uccisa! Me l'hai strappata dal cervello!” (p. 121). Sarà troppo tardi per scusarsi, ricordando che veniva ormai dal mare, dalle lotte feroci, da una vita selvatica; quando Ulisse capisce (ma doveva davvero capire ancora?) domanda comprensione. Lei vorrebbe accettare la sua richiesta, ma il grande viaggiatore è sfuggente, come sempre. Scappa, come sempre è scappato. Sapete perché?

Indossate abiti borghesi, e capirete. “La sede precisa del mio destino, io, alla fine, l'ho scoperta: il destino noi ce lo portiamo qui, con noi, tra il panciotto e la camicia... Vuole rendermi un servigio? Annunci a tutti che la parte più solitaria, più eroica, più fatale della vita di Ulisse...” (p. 130). Poi più niente. Si sente libero e fiero, crede che tutto sia stato detto; e in ogni caso, non ascolta più nessuno (talento che ha sempre saputo dimostrare, non c'era sirena che tenesse). Giù il sipario.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea Francesco Alberto de Chirico (Atene 25 agosto 1891 – Roma 5 maggio 1952), scrittore, pittore, saggista, critico, musicista, compositore italiano.

Alberto Savinio, “Capitano Ulisse”, Adelphi, Milano 1989. Piccola Biblioteca Adelphi, 227. A cura di Alessandro Tinterri.

Prima edizione: “Capitano Ulisse”, scritto nel 1926, venne rappresentato nel 1938. In volume: Roma, 1934, 110 esemplari. Cfr. edizione Adelphi, 1989, pp. 159-61.

Gianfranco Franchi, luglio 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.